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Recensione : Violino Banfi – Violino Banfi

Ho conosciuto Violino Banfi su Facebook, per caso. Sempre per caso ho beccato proprio il momento esatto in cui stava per fare uscire il suo debutto su CD, questo. Per puro caso l’ho contattato per chiedergli una copia del CD e se voleva una recensione; il caso ha voluto che accettasse.

Violino Banfi – Violino Banfi

Ho conosciuto Violino Banfi su Facebook, per caso. Sempre per caso ho beccato proprio il momento esatto in cui stava per fare uscire il suo debutto su CD, questo. Per puro caso l’ho contattato per chiedergli una copia del CD e se voleva una recensione; il caso ha voluto che accettasse. L’unica cosa che non è un semplice caso, in questa storia, sono le sensazioni che ho provato e che ho lasciato qui per iscritto. Non ho esagerato né minimizzato, ho solo provato a restituirvi il fatalismo, la furia e l’inferno di questo disco.

Contattatelo ed amatelo.

Violino Banfi




Si prenda ad esempio un musicista, uno di quelli che magari iniziano da uno strumento, poniamo il caso la batteria, e poi, nei vari sviluppi artistico-umani delle formazioni in cui si trova a partecipare, sia costretto a reinventarsi in mille modi:

cantante, chitarrista, bassista, spacciatore, biscazziere, trafficone e, magari per caso, pure violinista. La versatilità e l’adattabilità son certo qualità che non mancheranno mai al nostro che, col tempo, finirà gioco forza a fare di tali caratteristiche un suo punto di forza ed inizierà a mettere le basi per delle idee che poi diventeranno azione e ne designeranno l’estro.

Ecco che l’artista-per-il-momento-noto-come Violino Banfi, ad un certo punto, si è guardato allo specchio e si è detto “ma sai che? L’idea è un po’ stramba ma io ci provo lo stesso” imbraccia il violino, mette piede al pedale della cassa e si pianta davanti alla bocca un microfono:

ecco una One Man Band che pare avere i tratti distintivi di una comune One Man Band ma che di fatto non li ha: pezzi Garage cantati come pezzi Garage, col tiro di pezzi Garage ma che, come strumento armonico, utilizza un violino che non è uno strumento tipicamente Garage; cosa ne esce fuori dunque?

Un circolo Arci adibito a saloon di provincia, dove degli spacciatori di crack fanno a botte con degli sbirri in borghese; Violino Banfi sta in un angolo e instancabile, al netto di vetri, denti e arti che gli piombano addosso, continua ad inscenare la sua commedia dell’assurdo.

Mantra infernali, distese sataniche e schizofreniche disegnate dalle armonie insistenti di un violino che creano un immaginario sospeso tra l’edonismo aspro della vita quotidiana e l’anticamera dell’inferno. Paganini si è dato al Garage e non ripete formule assodate, ma si butta con sprezzo della vita nella scalata delle Montagne Della Follia di H.P. Lovecraft

Spero l’immagine sia chiara e funzioni perché questo disco non ve lo consiglio, ve lo impongo:

un’idea semplice che, tanto è semplice, proposta in maniera semplice e talmente scarna nel suo risultato finale che, per davvero, ha un qualcosa di geniale: la frenesia del violino ben si sposa ad una ritmica essenziale e sempre puntuale (il nostro parte batterista per arrivare a noi come artista completo) e sfugge abilmente e con nonchalance dai facili rimandi che una chitarra potrebbe suggerire; quello che ascoltiamo in questo CD è Spaghetti Western, un Blues che si riallaccia ai riti Voodoo trasformandosi in danze pagane e gitane.

Impossibile per me non pensare alla genialità artigianale di un Hasil Adkins mescolata sapientemente al violino folle di John Cale in Black Angel’s Death Song; certo, Violino Banfi sta suonando un Garage Country schizofrenico, in preda a ossessioni ed incubi, ma le suggestioni che ne ricevo, complice sicuramente la scelta del violino come solo strumento sovrano, sono di più ampio respiro: nel mondo già di per sé piuttosto affascinante delle One Man Band questo disco è destinato a spiccare, tracciare un solco indelebile;

impossibile non innamorarsene:
VB canta su questi tappeti sonori con voce gutturale, testimone di troppi whisky solitari al bancone del peggior bar del pianeta, e catarrosa, testimone a sua volta di troppe sigarette fumate agli angoli delle strade per calmare i nervi, e lo fa esprimendosi in diaboliche e ossessive filastrocche che ben si accorpano al tessuto inquieto della musica.

Nella sua scompostezza di base questo disco pare una delle cose più composte e organizzate che si possa udire proprio perché non vuole essere composto, per bene, congeniato per piacere; è dunque il disordine, la follia, il degrado morale la nostra vera condizione ideale?

Già il fatto che un disco porti a tali domande e riflessioni, è già una garanzia sulla sua bontà.

Fidatevi.

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