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Recensione : Telekinesis – 12 Desperate Straight Lines

Telekinesis - 12 Desperate Straight Lines: Prima di iniziare la recensione devo farvi una confessione: per me i Telekinesis sono stati una nuova scoperta. In realt...

Telekinesis – 12 Desperate Straight Lines

Prima di iniziare la recensione devo farvi una confessione: per me i Telekinesis sono stati una nuova scoperta. In realtà non dovrebbero essermi completamente nuovi perché il loro album di debutto (dal titolo “Telekinesis!”) risale a ben due anni fa e magari qualcuno di voi, meno sprovveduto di me, se l’era pure ascoltato. Non ho neanche bene idea di come chiamarli: i Telekinesis o Telekinesis e basta.

Dietro a questo nome, dalle reminescenze pseudoscientifiche, si nasconde infatti un’unica persona: un giovane ragazzo di Seattle chiamato Michael Benjamin Lerner. In questo disco ha fatto tutto lui (voce, chitarra e batteria), così come già aveva fatto per il precedente. Le uniche occasioni in cui si può parlare di Telekinesis come un’entità formata da più individui è nei live dove Michael, rinunciando al dono dell’ubiquità o alla telecinesi a cui si è ispirato per il suo nome d’arte, si fa affiancare da Jason Narducy (basso) e Cody Votolato (chitarra).

12 Desperate Straight Lines è stato scritto e ideato a Berlino ma messo in pratica a Seattle, dove si trova il suo produttore e mentore Chris Walla (ex Death Cab For Cutie). Parla di tutto ciò che di romanticamente triste e deprimente vi possa venire in mente ma sempre con melodie allegre e, a volte, pure orecchiabili.

È infatti un disco che non brilla assolutamente per immediatezza, anzi, risulta subito piuttosto ostico. Dopo aver macinato qualche ascolto però, il disco inizia a scorrere non dico liscio come l’olio ma costante, come il paesaggio visto dal finestrino di un treno. Tracce come “You turn clear in the sun”, “Please ask for help”, “I cannot love you”, “Car crash”, “Palm of your hand” e “Gotta get it right now” risultano sicuramente le più riuscite e, alla fine, riescono ad entrare di soppiatto in testa con le loro chitarre distorte e la contagiosa voce di Micheal (che cambia adattandosi, sempre efficacemente, al carattere diverso di ogni canzone). Danno però l’idea di essere piuttosto ‘interscambiabili’ tra di loro e confoderle è molto facile, soprattutto quando si è ai primi ascolti. Perfette da mettere in macchina per lasciarle andare senza prestare troppa attenzione, lasciandosi cullare dall’atmosfera che danno nell’insieme, più che dalle singole melodie.
Sembrano voler cantare fuori dal coro “50 Ways”, in cui le melodie molto più dure fanno venire in mente i Weezer quando vogliono fare le persone serie, e “Fever Chill”, il cui inizio dal retrogusto folk la rende una bella declinazione delle solite formule su cui sono giocate le altre tracce dell’album.

Se fosse un disco d’esordio, pur non provocando ugualmente particolari entusiasmi, sarebbe molto più facile sorvolare sulla piattezza generale delle tracce. Il fatto però che sia un secondo album, da cui per tradizione ci si aspetterebbe un risultato maturo e coinvolgente, lo rende nel complesso poco convincente. L’effetto finale è quello di un disco che poteva essere qualcosa di più e che, penalizzato da una diffusa mancanza di personalità e originalità, strappa solamente una sufficienza.

Tracklist:
1. You Turn Clear In The Sun
2. Please Ask For Help
3. 50 Ways
4. I Cannot Love You
5. Dirty Thing
6. Car Crash
7. Palm Of Your Hand
8. I Got You
9. Fever Chill
10. Country Lane
11. Patterns
12. Gotta Get It Right Now

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