iye-logo-light-1-250x250
Webzine dal 1999
Cerca
Close this search box.

Recensione : Station Dysthymia – Overhead, Without Any Fuss, The Stars Were Going Out

Dire Siberia e rabbrividire per un attimo anche in piena estate è un tutt’uno, così come lo è immaginare che i musicisti provenienti da quelle parti possano essere naturalmente predisposti a sonorità tutt’altro che solari.

Station Dysthymia – Overhead, Without Any Fuss, The Stars Were Going Out

Luoghi comuni a parte, gli Station Dysthymia da Novosibirsk, con questo loro splendido secondo disco, si pongono all’attenzione degli appassionati di funeral doom, collocandosi sulla scia dei magistrali Esoteric.
L’accostamento con la band britannica invero non è causale, se pensiamo che Greg Chandler ha curato in prima persona la resa sonora di Overhead, Without Any Fuss, The Stars Were Going Out.
Va chiarito subito che il riferimento agli Esoteric ha la sola funzione di fornire un termine di paragone più o meno attendibile a chi si vuole avvicinare a questo monolitico lavoro: in realtà il sound dei siberiani possiede una propria peculiarità anche se, in una band di formazione relativamente recente, la presenza di influenze più o meno significative va a maggior ragione tollerata.
Il disco trae il suo lungo titolo dal romanzo di Athur C.Clarke “I nove miliardi di nomi di Dio” e questo, in qualche modo, indirizza anche le tematiche fantascientifiche che permeano il lavoro: ovviamente non è difficile immaginare che, anche nella visione dei nostri, il futuro del genere umano sia tutt’altro che roseo.
Un’ora e dieci di ritmi pachidermici si abbattono su chi possiede la passione e la pazienza per ascolti di questo tipo: la prima, mastodontica traccia intitolata A Concrete Wall dura quasi trentacinque minuti e, da sola, basterebbe e avanzerebbe per definire questo lavoro un must per gli habituè del genere.
Nell’occasione, lo stile degli Station Dysthymia non mostra la pur minima apertura a passaggi melodici basando tutto sulla profondità dei suoni e sull’impatto ossessivo capace di infrangere qualsiasi tentativo di resistenza psichica: l’ultimo quarto d’ora del brano è qualcosa difficile da descrivere, tale è lo straniamento che è in grado di provocare.
La successiva Ichor non è assolutamente da meno, anche se ci viene concesso di intravedere qualche fioco bagliore di luce, grazie a una tastiera che talvolta riesce a farsi timidamente largo tra il cupo riffing delle chitarre: francamente un brano splendido che, in virtù di una durata dimezzata rispetto alla traccia precedente, sembra persino dotato di un (relativo) dono della sintesi.
Il finale è riservato a Starlit, suddivisa in due parti , nella quale un’aura malinconica attenua non poco i toni claustrofobici che, fino a questo punto, avevano contraddistinto il disco: una conclusione degna per un’opera di grandissimo pregio, che ci consegna un’altra band in grado di affiancarsi a pieno titolo ai nomi di maggior spicco della scena funeral.

Tracklist :
1. A Concrete Wall
2. Ichor
3. Starlit: A Rude Awakening
4. Starlit: We Rest at Last

Line-up :
O. – Drums
S. – Guitars
A. – Guitars
B. – Vocals, Bass

STATION DYSTHYMIA – Facebook

Get The Latest Updates

Subscribe To Our Weekly Newsletter

No spam, notifications only about new products, updates.
No Comments

Post A Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE

Arð – Untouched by Fire

Se da un lato viene meno il sempre stuzzicante effetto sorpresa, dall’altro emerge prepotentemente la soddisfazione di poter inserire nel gotha del genere un nome come quello degli Arð, con la prospettiva di poter godere anche in futuro di ulteriori lavori dalla qualità inattaccabile come Take Up My Bones e Untouched by Fire.

Oakmord – End of a Dream

End of a Dream è un veleno che entra direttamente in vena, inoculato da chi, come gli Oakmord, intende palesare all’ascoltatore che il tempo di sognare è finito, riportandolo bruscamente a una più prosaica e cupa realtà.

Acathexis – Immerse

Immerse colpisce lungo una cinquantina di minuti in cui turbina un coacervo di sensazioni la cui somma, alla fine, si sublima in un costante flusso emozionale; rispetto all’opera prima degli Acathexis si può apprezzare una maggiore propensione alla melodia, il che non significa affatto l’alleggerimento di un tessuto sonoro di rara densità emotiva.

Horre – Mass of the Churchyard’s Folk

Se il funeral degli Horre è sempre stato piuttosto minimale ma ugualmente capace di evocare sensazioni più malinconiche che luttuose, con questo ultimo album il sound acquisisce ulteriori sfaccettature, pur mantenendo ben saldo il marchio di fabbrica che il bravo musicista finlandese si è costruito nella sua ancor giovane carriera.