“A Gaza nessun posto è sicuro!”. Sento ripetere questa frase dai primissimi giorni dell’offensiva israeliana. Con il passare delle settimane, queste parole che all’inizio mi sembravano impensabili, hanno assunto sempre più concretezza.
“L’ordine dato agli abitanti del nord di Gaza di lasciare la loro terra, le loro case e gli ospedali entro 24 ore è oltraggioso. È un attacco all’assistenza sanitaria e all’umanità. Stiamo parlando di oltre un milione di esseri umani. Continuiamo a sentire la stessa retorica disumanizzante e questa violenza ne è la manifestazione. Dire che è “senza precedenti” non riesce a descrivere del tutto le conseguenze medico-umanitarie. Gaza è rasa al suolo. Migliaia di persone stanno morendo e questo deve finire subito.” Queste parole sono state pronunciate da Meinie Nicolai, Direttrice Generale di Medici Senza Frontiere, era il 14 ottobre 2023. A oggi posso dire con certezza, e i miei occhi ne sono testimoni, che la situazione è oltre ogni catastrofe mai accaduta e anche solo pensata da un essere umano.
La prima area ad essere definita sicura è stata la città di Rafah, nella parte più a sud della Striscia, proprio al confine con l’Egitto.
Così, più di un milione di persone si sono spostate dalle città del nord, da Jabalya e dal suo campo profughi, da Gaza city e i suoi quartieri estesi fino al mare, verso sud. Questo non significa che il nord sia rimasto completamente vuoto, non tutti hanno deciso di lasciare la propria terra e soprattutto non tutti possono permetterselo. I costi di trasporto, per non parlare del cibo, si sono decuplicati.
La maggior parte dei surfisti proviene dall’area intorno al campo profughi di Shati e dal quartiere di Sheik Ejleen, entrambi nella città di Gaza, teatro di aspri combattimenti fino a oggi, ma specialmente nei primi mesi.
Sono i luoghi in cui è stato girato il documentario Gaza Surf Club, che ha richiesto 5 anni di riprese, uscito nel 2016. Per dovere di cronaca il film non discute del progetto del “Gaza Surf Club” e della sua storia, ma si concentra sulla vita di alcuni ragazzi che compongono la comunità del Club.
Nei primi fotogrammi le onde e la loro forza fanno da cornice ad uno sfondo di palazzine e sabbia. Con uno sguardo veloce non è diverso da un paesaggio tipico di altre città arabe che si affacciano sul mediterraneo. Ma un’immagine dopo l’altra mostrano una combinazione perfetta e distorta tra lo scorrere della vita e la distruzione. Case collassate su se stesse, macerie ai lati delle strade piene di buche, abitazioni squarciate a metà, ma con i panni stesi fuori, appesi ad un filo. E poi la ricostruzione, strade ben asfaltate, palazzine ricostruite da poco. Ed è proprio questa Gaza, anzi era. Nonostante tutti gli attacchi subiti dal 2006, nonostante il completo isolamento riusciva a mettersi in piedi, in qualche modo.
Era il 21 ottobre 2023 quando Giorgia Meloni stringeva la mano al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per portare, parole sue, “la solidarietà del governo italiano e del popolo italiano”. Nello stesso giorno sono stati attaccati alcuni quartieri di Gaza City al nord, di Khan Yunis al centro e di Rafah, al sud. Mentre la premier italiana mostrava tutto il suo sostegno al genocidio in corso, venivano tirati fuori dalle macerie centinaia di persone vive e morte. 4.385 morti fino a quella data dal 7 ottobre.
Alcune famiglie dei Surfisti sono evacuate fino a Rafah passando prima da Deir Al Balah, centro della Striscia. Rawand Abu Ghanem mi raccontò a febbraio che per percorrere questo tratto di strada impiegarono 4/5 ore di macchina, un tratto da 40 minuti.
A Rafah molti hanno trovato rifugio in case, altri in tenda e altri ancora nelle scuole UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente). Nelle loro parole non è mai mancata la parola speranza, la speranza di tornare a casa “as soon as possible”, anche se sanno benissimo che non resta molto delle loro vite passate.
Nel film, Abu Jayab, uno dei protagonisti, pescatore e surfista da circa 30 anni, ripete come un mantra che “non c’è speranza a Gaza”. Non c’è speranza di uscire, non c’è speranza di vivere in una condizione diversa da quella che lui stesso considera una prigione. Ma ripete sempre che il surf è ciò che non gli fa pensare a niente, nel mare lui è in un posto diverso, in un mondo diverso.
Ecco di nuovo quel sentimento di libertà, condizionato costantemente.
A Gaza non ci sono i materiali per costruire delle tavole o per ripararle. Fino al 2007 i surfisti dovevano condividere tra tutti loro una sola tavola da surf. Così una volta venuto a conoscenza di questo, il fondatore dell’associazione Surfing 4 Peace, Dorian “Doc” Paskowitz e suo figlio David, in poche settimane raccolsero 14 tavole da surf usate grazie ad aziende di surf israeliane, per donarle “alla piccola ma appassionata comunità di surf di Gaza”. Non fu un’impresa facile, subito furono bloccate dalle autorità israeliane. Doc con un gesto coraggioso oltrepassò la barriera e rivolgendosi alle autorità disse: “Puoi spararmi alle spalle se vuoi, ma ho degli amici che mi aspettano dall’altra parte e hanno bisogno di queste tavole”, e così la consegna andò a buon fine.
Il 6 maggio 2024 è accaduto quello che tanto temevamo. Con il solito metodo dei volantini, il governo israeliano ha avvertito migliaia di civili di spostarsi da Rafah alla zona umanitaria ampliata nelle aree di Al-Mawasi. Così è iniziata l’offensiva su Rafah, portando distruzione e morte, termini che non rendono bene la realtà e con essi la chiusura del valico di Rafah, l’ultima speranza concreta per portarsi in salvo fuori da Gaza.
Alcune famiglie di surfisti sono riusciti a raggiungere questa zona, alcuni si trovano a Khan Yunis, altri a Deir Al Balah. Ma come è stato già detto, nessuna zona è sicura, e anche Al-Mawasi non è stata risparmiata dalle bombe.
Nell 2008 Matthew Olsen decide di fondare il Gaza Surf Club, l’obiettivo era quello di supportare i surfisti che già stavano praticando quello sport, in modo che potessero cooperare e condividere le proprie capacità e conoscenze per sostenersi a vicenda. Un altro obiettivo era fornire attrezzatura e formazione ai surfisti. In relazione a questo, volevano creare uno spazio nel quale potessero incontrarsi, collaborare e tenere corsi. Nel documentario, Ibrahim, la cui storia ci accompagna fino alla fine, mostra lo spazio che sarebbe dovuto diventare un negozio di surf da una parte, e una clubhouse dall’altra.
Ibrahima sta aspettando da molto tempo il rilascio del visto per recarsi alle Hawaii, per capire meglio il lato commerciale del surf, imparare a riparare le tavole e portare tutto questo a Gaza per condividerlo con gli altri surfisti.
Nel 2010 l’autorità israeliana ha dato il permesso per far entrare altre tavole. Nei due anni precedenti, il governo di Hamas a Gaza aveva vietato tutte le iniziative di pace e la cooperazione transfrontaliera tra palestinesi e israeliani. Fortunatamente, Matthew Olsen e Explore Corps avevano già avviato il progetto Gaza Surf Club riuscendo ad ottenere le autorizzazioni necessarie da parte palestinese e a gestire la distribuzione delle tavole da surf ai surfisti in attesa. In totale sono state consegnate 30 tavole da surf, comprese 15 tavole nuove di zecca di Global Surf Industries.
Uno degli obiettivi principali di Matthew è sempre stato quello di far sì che il Gaza Surf Club diventasse un’associazione sportiva palestinese formale il più rapidamente possibile, per poter gestire tutti gli aspetti di questo sport in autonomia. Dice “Sfortunatamente, la divisione dei governi palestinesi tra Gaza e Ramallah ha reso tutto ciò impossibile. Abbiamo provato ogni anno a reintrodurre l’argomento, ma ogni volta il governo di Gaza ci ha negato.”
Finalmente nel 2015 dopo che il visto gli era stato rifiutato per ben 5 volte, Ibrahim parte per le Hawaii. A oggi il progetto della clubhouse è rimasto solo un’idea, Ibrahim non ha fatto più ritorno a Gaza, decidendo di rimanere negli Stati Uniti. Così il progetto si è preso qualche anno di pausa, e tutti sono andati avanti con le proprie vite. Nel 2019 era in programma un nuovo progetto da lanciare l’anno successivo, ma il covid e poi lo scoppio di questa tragedia umanitaria, hanno distrutto tutti i piani.
Grazie a Surfing 4 Peace, a Matt e ad Explore Corps, per la prima volta, ogni surfista aveva la propria tavola da surf, inclusa l’ultima aggiunta al Club, la prima surfista donna di Gaza, la mia cara amica Rawand Abu Ghanem.
Nel luglio del 2022 più di venti giovani surfisti hanno raggiunto la spiaggia di Gaza per prendere parte al primo evento di surf in Palestina organizzato dalla Palestine Sailing and Rowing Federation.
Al Palestine Chronicle Khalil Muhammed Abu Jiyab, all’ora quattordicenne e partecipante più giovane dell’evento, dichiarò: “Mi sento benissimo quando pratico surf in mare. Il mio messaggio a tutti i giovani in tutto il mondo è di perseguire le loro passioni, in modo che possano contribuire al miglioramento della società”.
Ho cercato questo giovane surfista su Instagram, volevo salutarlo, sapere come se la stava passando e contribuire a diffondere la sua storia. In un post in cui è stato taggato si legge questo: ”Era uno studente di ingegneria informatica presso l’Università Al-Azhar, un giovane promettente, ambizioso, generoso, disponibile, dedito al lavoro e all’apprendimento. L’occupazione criminale ha ucciso lui, i suoi sogni, la sua ambizione e la maggior parte dei suoi familiari ieri in un bombardamento all’edificio degli ingegneri nel campo di Nusayrat “. Era il 2 novembre 2023.
Ogni giorno ho il dovere di ricordare a me stessa e a chi mi sta intorno che questa escalation di violenza che i governi vogliono normalizzare non solo non è lontana da noi nello spazio, ma soprattutto non lo deve essere nella nostra coscienza. E’ il diritto alla libertà più basilare possibile che manca a Gaza, e in West Bank. E’ il diritto a scegliere per sé stessi partendo da uno stato di non condizionamento esterno, liberi dall’occupazione sionista, liberi di poter pensare oltre.
Mentre il documentario è ormai alla fine, Mahmoud Alryashi, surfista fin da piccolo, dice con voce ferma e risoluta che “la più bella spiaggia al mondo è quella di Gaza, la più bella costa è quella della Palestina, non esiste sabbia nell’intero mondo come quella della Palestina”.
Di sottofondo la voce di Ingy Nazif recita in arabo:
“In attesa di un’onda che scuoterà il mondo e solleverà la nube delle preoccupazioni.
Aspettando ogni giorno l’onda aggrappandosi al sogno.”
Qui trovi il link del fondo di soccorso per i surfisti gestito da Explore Corps: https://gazasurfclub.com/support#a2dcc7e5-1831-4b54-992b-b528b546d171
Qui trovi i link delle raccolte fondi create dai surfisti di Gaza: https://linktr.ee/summerkahlo
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