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Recensione : Frankenstein Di Mary Shelley

“Frankenstein” di Mary Shelley, edito da Newton Compton.

Frankenstein di Mary Shelley

Frankenstein Di Mary Shelley

Frankenstein di Mary Shelley

“Frankenstein” di Mary Shelley, edito da Newton Compton

Frutto perverso degli esperimenti di uno scienziato “apprendista stregone”, espressione di una visione romantica della scienza, “Frankenstein” è tuttora la raffigurazione del “mostro” per eccellenza, materializzazione vivente delle nostre paure. Mary Shelley ha scritto uno dei più famosi best-seller del secolo scorso, suscitando fin dal suo apparire (1818) grandissima impressione e scandalo.

In questo romanzo affiora in ogni pagina un’intensa paura del brutto, dell’imprevedibile e del dirompente: il mostro è diverso, e come tale va emarginato e punito, perché può provocare solo panico e sgomento, seminando distruzione e morte; non solo, al mostro non sono consentiti né gioia né amore: l’unico sentimento che può conoscere è l’odio, odio verso il mondo che non può amarlo e verso chi lo ha generato a una tale sofferenza.

Potrete leggere passaggi come questi:

• Un essere umano perfetto dovrebbe sempre mantenere la mente calma e serena e non permettere che la passione o un desiderio passeggero disturbino mai la sua tranquillità. Non credo che il fine della conoscenza faccia eccezione a questa regola. Se lo studio al quale ci si applica tende a indebolire i nostri affetti e a distruggere il nostro gusto per quei piaceri semplici in cui nessuna impurità può mescolarsi, allora quello studio è certamente illecito, cioè non si addice alla mente umana. Se questa regola fosse sempre stata osservata, se nessun uomo avesse mai permesso a nessun progetto di interferire con la tranquillità dei suoi affetti domestici, la Grecia non sarebbe stata resa schiava, Cesare avrebbe risparmiato il suo paese, l’America sarebbe stata scoperta più gradualmente e gli imperi del Perù e del Messico non sarebbero stati distrutti.
• Se i nostri sensi fossero limitati alla fame, alla sete e al desiderio, potremmo essere quasi liberi; ma noi siamo mossi da ogni alito di vento, da una parola casuale o da un episodio che quella parola ci comunica.
• Per lungo tempo non potei concepire come un uomo potesse stabilire di uccidere il proprio simile, e neppure che ci fossero leggi e governi; ma quando udii i particolari del vizio e dell’assassinio, la mia meraviglia cessò e distolsi il pensiero con disgusto e ripugnanza.
• Quanto è strana la conoscenza! Una volta che ha preso possesso della mente ci si abbarbica come un lichene alla roccia.
• (…) la sofferenza ottenebra anche le più naturali sensazioni dell’uomo.
• La vita è ostinata e si abbarbica più stretta quanto più è odiata.
• (…) avevo sempre trovato sollievo dal tormento mentale nell’esercizio fisico.
• Niente per la mente umana è più doloroso di un cambiamento grande e improvviso.
• (…) i compagni della nostra gioventù posseggono sempre un certo potere sulle nostre menti cui difficilmente perviene un amico incontrato più tardi.
• (…) non cerco compassione per la mia infelicità. Non potrò mai trovare comprensione. Quando l’ho cercata, erano l’amore della virtù, i sentimenti di felicità e di affetto che traboccavano dal mio essere, che io volevo donare agli altri. Ma ora che la virtù per me è diventata un’ombra e che la felicità e l’affetto sono diventate una disperazione amara e disgustosa, perché dovrei cercare comprensione? Mi sta bene di soffrire da solo finché le mie sofferenze dureranno; quando morirò mi andrà bene che solo l’obbrobrio e l’orrore pesino sulla mia memoria. Un tempo la mia fantasia era rallegrata da sogni di virtù, di fama e di gioia. Un tempo sperai inutilmente di incontrare esseri che, perdonando la mia forma esterna, mi avrebbero amato per le ottime qualità che ero capace di svelare. Mi alimentavo di pensieri elevati di onore e devozione.
• (…) anche il nemico di Dio e degli uomini aveva amici e associati nella sua desolazione; io sono solo.
• Devo essere considerato il solo criminale quando tutta l’umanità peccava contro di me? Perché non odi Felix, che gettò fuori dalla porta, ingiuriandolo, il suo amico? Perché non maledici il contadino che cercò di annientare il salvatore della sua bambina? No, quelli sono esseri virtuosi e immacolati! Io, il miserabile, il derelitto, io sono un aborto da scacciare, da prendere a calci e da calpestare. Anche adesso mi ribolle il sangue al pensiero di questa ingiustizia.

Volete sapere qualcosa di più di questo libro?

Dall’introduzione dell’autrice, dell’ottobre del 1831: “Ogni cosa deve avere un inizio, per parlare al modo di Sancho Panza; e quell’inizio deve essere fondato su qualcosa che è già iniziato; gli Indù pongono il mondo sopra un elefante, ma quell’elefante lo pongono su di una tartaruga.

Si deve ammettere con umiltà che l’invenzione non è una creazione dal nulla, bensì dal caos; in primo luogo ci deve essere del materiale a disposizione; l’invenzione può dare una forma a sostanze oscure e indefinite, ma non può creare dal nulla la sostanza stessa. In tutte le questioni di scoperte e invenzioni, anche in quelle che concernono la fantasia, siamo continuamente richiamati alla storia di Colombo e del suo uovo.

L’invenzione consiste nell’abilità di cogliere al volo le possibilità di un soggetto e nella capacità di modellare e foggiare le idee da esso suggerite”.

Marco Sommariva

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