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Recensione : Dead end blues di Hugues Pagan

“Dead end blues” è un noir duro del 1990, ambientato in una Parigi crepuscolare e indifferente dove indaga il protagonista, un ispettore di polizia, un uomo che non ha più niente da perdere.

Dead end blues di Hugues Pagan

“Dead end blues” è un noir duro del 1990, ambientato in una Parigi crepuscolare e indifferente dove indaga il protagonista, un ispettore di polizia, un uomo che non ha più niente da perdere.

Come il suo protagonista, anche Pagan è stato poliziotto, occupazione svolta con l’utopia di poter creare un’amministrazione della giustizia non più legata mani e piedi al potere e alla corruzione.

E come il suo ispettore di polizia, anche l’autore ha dovuto ben presto fare i conti con l’avidità di una classe dirigente senza scrupoli e con la feroce disillusione di chi si vede a poco a poco emarginato per non voler scendere a compromessi; la sua reazione a tutto questo è stata quella di abbandonare la polizia e diventare scrittore a tempo pieno.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Ho continuato a scendere, gradino dopo gradino. Non bisogna credere che ne avessi davvero voglia, ma un giorno o l’altro cominciamo a scendere tutti. Non è neanche molto difficile. Il più è iniziare.
  • A fiutare le inculate e la cattiveria, i cani sono più bravi degli uomini.
  • I ricchi fanno come se fossero a casa loro anche in una stazione di polizia, ma non i poveri. Loro sanno che la polizia non è per loro, non più della giustizia o dei dentisti. Sono solo loro ad avere paura degli sbirri. Né i delinquenti né i ricchi, solo i poveri.
  • I preservativi, la bottiglia d’acqua per sciacquarsi la bocca o il culo, i fazzoletti di carta, la carta d’identità per non finire dentro… Gli ottocento sacchi belli piegati in quattro nella tasca davanti… (…) Non c’è niente di più triste della borsa di una puttana.
  • Certi ricordi sono più devastanti di una pallottola nello stomaco.
  • Un giorno o l’altro si finisce per smettere di parlare.
  • Non bisogna mai chiedere agli altri di capire.
  • Come dicono i sandinisti, era da tempo che avevo perso l’abitudine borghese di fare due pasti al giorno.
  • Si crede sempre ciò che fa comodo.
  • Un giorno, anche solo per cinque minuti, ciascuno di noi è stato bello, per qualcuno.
  • Sono tante le cose di cui non si parla mai (…).
  • Quando si cade, si finisce per aggrapparsi a delle inezie.
  • (…) un giorno si finirà per privatizzare anche la polizia, come già si discute a proposito delle prigioni: perché, ci piaccia o meno, lo Stato ormai non serve che da tirapiedi alle multinazionali e ai signori della guerra, che sono gli stessi che hanno in mano il potere economico.
  • (…) abbiamo chiacchierato del più e del meno. Come si fa quando si può dare tutto il resto per scontato.
  • L’onestà è quello che si pretende dai poveri e dalla servitù. Dai pezzi piccoli, non da quelli grossi.
  • I veri giocatori vogliono perdere, il loro massimo desiderio è punirsi per cose che non hanno mai fatto.
  • Qualcuno ha scritto che la grande debolezza della forza è il fatto di credere solo alla forza.
  • Avevo lottato, certo goffamente, perché dei ragazzi – i loro, i miei, quelli di tutti – smettessero di bucarsi e di crepare di overdose, perché gli agenti immobiliari smettessero di arrostire i vecchi negli edifici su cui avevano messo le mani, perché si smettesse di trattare come cani negri, marocchini e tutti quelli che non avevano avuto fortuna. Anch’io avevo lottato per un mondo più giusto e fraterno, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
  • Avevo sognato un mondo dove i poliziotti avrebbero smesso di piegarsi a novanta gradi davanti ai ricchi e di prendere a calci in culo i poveri e i reietti, dove i commissari non avrebbero più lucrato sui rimborsi spese…
  • Nessuno riesce a resistere quanto gli piacerebbe.
  • Certe volte si crede di essere nel giusto. Poi si vedono i risultati, e uno non è più sicuro di niente.
  • Mi lasciavo trascinare dalla corrente, che non è il sistema migliore per andare lontani.
  • Aveva sempre camminato verso qualcosa che gli svaniva davanti, sempre deluso, mai scoraggiato.
  • Aveva bisogno di parlare, ma io non avevo bisogno di sentirla.
  • La sofferenza fa dire e fare strane cose.
  • (…) non avevo più sogni. È da questo che si riconoscono i morti.

 

Dead end blues di Hugues Pagan, edito da Meridiano Zero

Volete sapere qualcosa di più dell’autore? Hugues Pagan non è tipo da restare troppo a lungo nello stesso posto. I punti più significativi della sua biografia e della sua attività professionale mettono in evidenza una personalità segnata dall’irrequietezza, pari a quella che muove molti dei suoi personaggi, e in particolare l’anonimo funzionario di polizia protagonista di “Dead end blues”.

Come l’io narrante, anche Pagan è un figlio dell’Algeria successivamente emigrato in Francia: un “pied-noir”, come Albert Camus e Martial Solal.

E proprio com’è capitato a Camus nella letteratura e a Solal nel jazz, anche per Pagan l’emigrazione verso la matrigna Parigi finisce per produrre una personalità complessa, contraddittoria, alla continua e consapevole ricerca di un irraggiungibile punto d’arrivo, non solo fisico, ma anche artistico.

Dead end blues di Hugues Pagan

Marco Sommariva

marco.sommariva1@tin.it

 

 

 

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