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Confessioni di una maschera “Out of Step”

Confesso di sentirmi spesso ai margini, nelle conversazioni che, mio malgrado, mi ritrovo a dover sostenere nei rari momenti in cui interagisco fisicamente con gli altri esseri umani.

Confessioni di una maschera “Out of Step” morti bianche

Confessioni di una maschera “Out of Step”

Confesso di sentirmi spesso ai margini, nelle conversazioni che, mio malgrado, mi ritrovo a dover sostenere nei rari momenti in cui interagisco fisicamente con gli altri esseri umani. Capita di non potersi esimere da quei freddi rapporti che mantengono accettabile il livello del quieto vivere. E capita di venire chiamati in causa in merito ai fatti della più stretta attualità. Anche e soprattutto quelli di cui mi interessa davvero poco.
Sarebbe molto più piacevole parlare di tutta quelle sana follia intorno a cui ho edificato questo mio mondo immaginario.

Ma la vita di tutti i giorni mi riporta alla cruda realtà costringendomi a partecipare a conversazioni che vertono su argomenti che non reputo meritevoli di attenzione e approfondimento.
Inevitabile, viste le dinamiche in atto a livello geopolitico in questi mesi, che il dialogo finisca sulla dicotomia tra Russia e Ucraina. Così come è altrettanto inevitabile che si debba per forza parteggiare per una delle due fazioni in lotta. Una terza via pare non essere ammessa all’altare della Giustizia. Se, inizialmente, nei mesi scorsi, ho cercato di mantenere una certa equidistanza “di facciata”, ora invece vado diretto al punto, senza fare mistero di ciò che penso.

A me di questa guerra non frega un cazzo. Fatevene una ragione.

Si tratta di un qualcosa che sento completamente avulso da quelle che sono le mie priorità. Fermo restando l’atroce corollario di morti che caratterizza questa e tutte le altre guerre in atto sul pianeta nel momento in cui sto scrivendo, alcune delle quali si trascinano da anni, senza tutto il clamore mediatico di questa ultima, sono altre le guerre che considero meritevoli non solo di attenzione ma anche di essere combattute. Guerre di cui puntualmente non si parla. Che vanno avanti da anni, con il loro carico di morti.

Morti che però, a differenza di quelli dell’Europa dell’Est, non fanno rumore.

Sono i morti sul lavoro quelli che mi fanno più male. Quelli a cui dedico il mio pensiero, la mia attenzione, la mia ira, il mio sdegno. Loro e tutti gli altri che cadono sotto il peso dell’ignoranza e della discriminazione. Morti che incontriamo ogni giorno sul nostro cammino, ma che facciamo finta di non vedere.
Negli ultimi 5 anni ci sono stati in media 642.000 incidenti annuali sul lavoro e sono morte in media 1072 persone all’anno. Il tutto nel silenzio più assoluto.

In pratica ogni giorno di tutte le persone che si recano al lavoro, in 3 non torneranno a casa dalle loro famiglie. Ovviamente tutto questo si riferisce ai dati ufficiali. Non vengono presi in considerazione gli schiavi contemporanei che sono costretti a lavorare in nero. Quella è una guerra ancora peggiore, su cui il silenzio è ancora maggiore. Nemmeno la “TV del dolore” che spettacolarizza ogni situazione morbosa in nome dello share se ne occupa. Segno che i morti sul lavoro sono l’espressione di un mondo davvero invisibile, a tutti i livelli. Mentre vanno in onda quotidianamente collegamenti “dal fronte” in un’operazione di sublimazione di questo conflitto che non faccio fatica a definire “mediatico”.

La guerra nell’ex Unione Sovietica e quella che vede cadere i lavoratori sono due dinamiche completamente differenti, questo è chiaro. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di ribadirlo. È altrettanto chiaro però che il silenzio incredibile che gravita intorno a tutto ciò che riguarda il mondo del lavoro in Italia, soprattutto se paragonato ai fatti ucraini è intollerabile.

Tutti si affrettano per dire la propria su ciò che accade nel Risiko est-europeo dando spazio ai propri pensieri (non richiesti mi sento di aggiungere) su ogni piattaforma digitale possibile, mentre per i morti sul lavoro non ci sono click. Non interessano. Non fanno parte degli argomenti da seguire per improvvisarsi influencer.

La guerra contro le morti bianche deve andare in parallelo a quella derivante dal riproporsi quotidiano di ogni tipo di ingiustizia sociale. La situazione in cui ci siamo infilati è senza ritorno. Si tratta di dinamiche ormai private di ogni riferimento temporale. Spogliate di interesse. Seppellite sotto strati di polverosa indifferenza.

Nel momento in cui continuiamo a dividerci, ora pro e contro Putin, prima pro o contro i vaccini, continuiamo a non capire che ci sono “guerre” più urgenti da combattere in modo unitario, e con ferma intransigenza. È inutile andare a cercare ogni volta un nemico diverso da elevare a bersaglio dei nostri strali. Al tempo stesso è inaccettabile la divisione ideologica che porta il ragionamento ad una riduzione sin troppo semplicistica che si sostanzia nel “o con noi o contro di noi”. Siamo troppo adulti per continuare a ragionare in modo cosi’ adolescenziale.

Ci sono nemici (solo apparentemente invisibili) che da troppo tempo si fanno beffe di noi e dei nostri diritti più elementari. Li abbiamo sottovalutati in nome del progresso, dimenticando la nostra sete di giustizia sociale. E oggi ne paghiamo le conseguenze.

Chiudo questa “confessione di maggio” prendendo spunto dall’apertura di questo mese che sancisce l’arrivo dell’odiata stagione estiva. Il mese si è aperto come ogni anno dalla “parata” sindacale nelle varie città italiane. Come a voler significare che una sfilata sotto il sole primaverile è la panacea di tutti i mali relativi al mondo del lavoro. E gli altri 364 giorni che facciamo? Ci dimentichiamo del precariato? Del lavoro nero? Dei salari da fame? Del gap salariale a carico delle donne? Delle morti bianche?

Ho sempre trovato inaccettabile la volgare parata in alta uniforme del primo maggio. Data che sancisce la nostra totale dipendenza dall’oppressione lavorativa derivante da un sistema di sviluppo completamente sbagliato.

E visto che parliamo di sindacati, non posso non ricordare l’inaccettabile e silenzioso disinteresse discriminatorio a danno di tutti coloro che sono stati inseriti nel calderone “no vax”. La triade ha scelto di trattare questi lavoratori in maniera indecorosa, scordandone attenzione e tutela. E lo ha fatto dichiarando apertamente che la linea da seguire fosse da individuare in quella governativa, mettendo al confine tutti coloro che in ambito sanitario non hanno scelto di aderire alla campagna di vaccinazione. Non ricordo una sola parola a favore o in loro difesa.

Sono diventati invisibili e sono stati trattati come tali. Messi alla porta (in modo fortunatamente temporaneo) dalle aziende sanitarie in attesa che qualcuno dall’alto dei cieli decidesse in merito. E dico tutto questo, mi piace sottolinearlo, da vaccinato convinto della propria scelta. Scelta che però non deve andare a danno di chi non la pensa come me. Se mai avessi pensato di tesserarmi con qualche organizzazione sindacale, con questo loro silenzio cade ogni mio interesse in merito.

Ricordo ancora una volta come la mia visione di un paese sia vincolata al modo in cui vengono trattati “gli ultimi”. Gli indesiderati, i reietti, i più deboli. È il modo in cui trattiamo “gli esclusi” la discriminante che mi permette di capire il grado di civiltà.

Inutile dire che anche in questa occasione, grazie all’abbandono di tutti coloro che non si sono adeguati alle istruzioni del governo centrale, possiamo dire di aver dato l’immagine di un paese di merda.

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