:: confessioni di una maschera ::
“lavorare meno, lavorare tutti”
luglio duemilaventicinque
Recentemente avrei dovuto partecipare al concorso pubblico indetto dalla ASL Toscana Centro, ma ho scelto di rifiutare la convocazione per la prova scritta, pur essendomi, inizialmente iscritto. Mentre passavano i giorni, e la data si avvicinava, cresceva in me una forte insoddisfazione, a cui non riuscivo a dare forma, ma che sapevo mi avrebbe portato a rivedere la mia intenzione di prendervi parte. Ho messo da parte tutto quello che mi stava circondando, e mi sono guardato dentro in cerca di quel malessere che mi stava scavando nelle viscere. Alla fine ho deciso di chiamarmi fuori, in nome di quei principi a cui mi ispiro, e che, pur se faticosamente, cerco di mantenere al centro dei miei ragionamenti e delle mie azioni.
Due sono state sostanzialmente le motivazioni che mi hanno spinto in questa direzione. Una etica e una politica. Entrambe riconducibili alla forma di sviluppo che abbiamo scelto come modello per costruire la nostra società ideale. Modello che, non serve sottolinearlo ulteriormente, ha dimostrato, e sta continuando a dimostrare il suo fallimento.
Etica dicevamo. Quella stessa etica che ci porta a guardare al concorso pubblico come all’unica via percorribile per “selezionare” (termine orribile nel momento in cui lo associamo agli esseri umani) il personale da assumere. Una via che rifiuto fermamente. In toto.
Il mio ragionamento si inserisce e riprende la falsa riga di quello che sta accadendo in questi giorni con la rinuncia degli studenti chiamati a sostenere la prova orale per gli esami di quinta superiore. La loro contestazione è sostanzialmente assimilabile alla mia, e viceversa. Sono dell’idea che individuare un numero come discriminante per stabilire l’idoneità o meno sia aberrante. Non è, e non sarà un quiz a risposta multipla, come quello per conseguire la patente di guida, lo strumento che può sancire quell’insieme di competenze, conoscenze ed esperienza che sta alla base di una professione come quella sanitaria. Il lavoro ci mette a contatto con degli esseri umani, per lo più in una fase della loro esistenza in cui hanno un problema di salute, e quindi ancor più in difficoltà. Mettere delle crocette secondo la giusta sequenza su un tablet, in un capannone industriale ammassati a migliaia, non fa di te un professionista della salute in grado di prendersi cura di una persona bisognosa di assistenza.
Il ragionamento, condivisibile o meno, va nella direzione di quello dei ragazzi di cui sopra. Non sono gli esami, ma ancora prima i numeri – i voti – a fare di loro delle persone “mature”. Sarà la vita, dato che la scuola non è stata in grado di farlo, ad insegnare loro a pensare in modo critico, e non seguendo un percorso stabilito da altri per loro, un percorso che non tiene conto di loro in quanto esseri umani pensanti, ma che li vede come parte di un dogmatico iter che li costruisce secondo un modello preordinato. La valutazione di uno studente deve essere un qualcosa che prende in esame tutto il suo percorso scolastico, che prova a correggerne le debolezze e ne esalta le qualità, in modo individuale, non stardandizzato, che insegna a guardare a loro stessi – prima – e al mondo – poi – con uno sguardo che esula dagli schemi di una società che ha eletto come unico dio (scritto volutamente minuscolo) in terra il denaro.
L’idea che mi sono fatto (da fuori) della scuola odierna, è che si tratti di uno strumento che guarda all’indottrinamento, al nozionismo, e che prepara i ragazzi alla competizione, unica vera costante della vita che hanno di fronte. È proprio qui, nella competizione, che sta il nocciolo del problema. Nella competizione tra pari (o presunti tali, qui dovremmo aprire una parentesi che ci porterebbe lontano da quello che l’argomento di quest oggi) su cui si regge il pianeta. Nella scuola prima e nel lavoro poi. Se la scuola guarda a preparaci alla lotta competitiva, smette di vestire i panni di educatrice, rinuncia ad aiutarci nel nostro percorso di crescita (culturale ma anche interiore), a insegnarci a pensare in modo critico e libero. Guarda soltanto a stabilire delle classifiche tra i partecipanti, come in una qualunque competizione sportiva, uno show televisivo o un videogioco. Gli studenti diventano quindi degli automi da addestrare, a cui non è consentito esprimere un parere sul percorso a cui sono stati “condannati.” Detto che la competizione è a tutti gli effetti conflitto, poi però non stupiamoci se accade quello che ogni giorno leggiamo nelle notizie che compaiono online.
Ci vogliono performanti all’eccesso, ma nella misura in cui siamo in grado di rispondere ai requisiti che hanno scelto per noi. La libera iniziativa non è contemplata. Men che mai la critica all’ordine costituito. E chi non ce la fa? Lo releghiamo ai margini? Gli impediamo di avere le stesse possibilità dei suoi coetanei? È questo che significa educare? Crediamo fermamente di no. Crediamo che sia tutto sbagliato. Invece di chiederci come mai tutto sta andando a rotoli andiamo a sanzionare quelli che ci dicono che la nave sta affondando. Forse meritiamo davvero di affondare se questa è la nostra risposta.
Il secondo motivo per cui rifiuto l’idea del concorso è come detto politico.
Al netto del fatto che rigetto il metodo, se proprio concorso deve essere, che sia almeno indetto con criteri di inclusività, e non il contrario. In attesa di capire che la chiamata diretta è la scelta migliore, oltre che quella che evita il lievitare dei costi per l’allestimento delle prove, la ASL nel momento in cui ha bisogno di assumere il personale deve indire il concorso riservandolo ai soli disoccupati.
Se io ho già un impiego non posso partecipare. Devo lasciare il posto a chi il lavoro non ce l’ha.
Perché aprire a tutti la possibilità di essere assunti, quando la stragrande maggioranza dei partecipanti ha già un impiego, e partecipa con la sola intenzione di migliorare la propria posizione? Se vogliamo essere davvero società “civile” (come ci piace autodefinirci quando prendiamo le distanze da qualcosa che non ci aggrada) allora pensiamo prima a chi è rimasto indietro, a chi non ha un reddito, a chi non può accedere a quello standard minimo che risponde al nome di dignità. Ci sarà poi tempo e spazio anche per noi che abbiamo già queste certezze, per sistemare la nostra smania di grandezza. Prima gli ultimi, poi il superfluo.
Purtroppo però si continua a perseverare con l’idea che se uno non riesce nella compilazione cervellotica (e assolutamente casuale) dei test di ingresso non è meritevole di ottenere un posto di lavoro. Siamo in un perenne reality show dove ci si cimenta in prove che non vogliono mettere in risalto le nostre qualità, ma che tendono ad escludere gli altri. In un mondo sanitario che va verso l’esclusione di tutti coloro che hanno un reddito che non permette loro di accedere alle cure sento venir meno la voglia di far parte di questo stato di cose.
Faccio parte di quella generazione di sognatori che considera il lavoro come uno strumento di coercizione attraverso cui siamo legati per le palle alle banche, e ai loro giochi di potere. Se non lavoro non posso permettermi i beni primari, non posso accedere alle cure sanitarie di cui ho bisogno, e via dicendo. Per cui, al netto del fatto che dovremmo ripensare il modello di sviluppo in atto, il minimo sindacale lo individuo nel permettere a chi è in difficoltà, perché privato di qualsiasi forma di reddito, di accedere ai posti di lavoro che, quelli come me, che non vivono il dramma di questa situazione, devono lasciare liberi, per scelta, per onestà intellettuale, per rispetto verso chi per i motivi più disparati è rimasto indietro. Fatevi pure i vostri concorsi e rallegratevi del vostro essere riusciti a rispondere come delle scimmiette ammaestrate alle domande. Io ho scelto di perdere, ancora una volta.
Lavorare tutti lavorare meno si diceva una volta, e si leggeva sui muri dei palazzi vergato di fretta, nottetempo, con la bomboletta. Il tempo è passato, ma queste quattro parole sono ancora un sogno, che mai si realizzerà. La conquista collettiva che sottintendeva è ancora lontana.
Una risposta
Io non so che avrei dato per essere in Liguria o qualunque regione che non fosse la Campania. Non sono passata all’ orale con 88/100 perché qui si sono venduti la qualunque e il voto minimo per accedere all’ orale è stato 92, in Liguria 70.
Tra l’altro ciò che nell’ articolo c’è scritto sulla scuola è vero dal punto di vista pratico, falso dal punto di vista formale. La pedagogia mondiale ha fatto passi da gigante e se solo noi nuove leve potessimo entrare nel pubblico, voti e nomenclature sarebbero belli e che sconparsi. Purtroppo ci sono le vecchie leve sia di ruolo che precarie che (per loro fortuna) ci passano avanti e che oltre a comprare titoli e accessi, non capiscono manco il cazzo di quello che studiano
La parte di psicologia e pedagogia del concorso verte tutta sul convertire i processi di valutazione da numerali a formali (cioè consigli su dove migliorare e come) e sulla metcognizione, ovvero allenare gli studenti a trovare il loro metodo di studio, che finalmente dall’ alto si sono accorti che non siamo tutti uguali.Per i disoccupati ci sono stati i percorsi goal del pnrr, io ne sto seguendo uno adesso, era solo per disoccupati, ma di disoccupati ci siamo presentati solo in 3 quindi lo hanno aperto anche agli occupati.
I tentativi – comunque da parte di un sistema che i soldi li fa sulla pelle degli altri – di risolvere i problemi interni ci sono, la domanda è: noi siamo davvero pronti a prendere il salvagente quando ce lo lanciano? Perché il problema in Italia – e forse dovrei parlare solo della Campania perché è la mia terra e quindi l’unica che conosco, è che le soluzioni si continuano ad aspettare pregando fuori ai centri scommesse.