1-Approfitto subito di questa intervista per chiederti una smentita che a me preme molto: voci di corridoio sostengono con insistenza il tuo nome d’arte sia una furba dissimulazione dell’appartenenza alla schiatta di gioiellieri francesi Van Cleef & Arples, ma io sono e resto convinto esso omaggi il mitico Lee Van Cleef, coerentemente con il sistema di riferimenti cui ci hai fin qui abituato. Ahaha! Ti va di dirmi due parole su questa scelta?
AVC – Hahah! Se l’ipotesi gioiellieri fosse anche solo lontanamente vera, credo che dormirei sonni più tranquilli di notte, purtroppo le mie origini sono umili, con qualche striatura di miseria a un certo punto. Ad ogni modo, con la seconda ipotesi hai indovinato, è un omaggio a Lee Van Cleef, quando ero bambino guardavo sempre i film western con mio padre, era una delle poche cose che facevamo insieme. A cavallo del cambio di secolo, quando ho iniziato a suonare e a registrare demo con le prime band, avevo una grandissima passione per il cinema, che rivaleggiava con quella per la musica e per le letture; era una passione condivisa anche da alcuni miei amici, quindi la mia prima band aveva preso il nome di Bogartz, e nel mio primo demo solista, una cassetta tutta stonata e gracchiante, suonata malissimo, avevo usato il nome Van Cleef, che poi a un certo punto mi è rimasto appiccicato addosso.
2-Il tuo ultimo disco è un live registrato in Texas che, per chi vive ai margini dell’impero, rappresenta uno degli stati più conservatori degli USA. Come ti è apparso, da visitatore, il presunto ventre molle dell’America trumpiana?
AVC – C’è da dire che noi gravitavamo soprattutto intorno all’area di Austin, la capitale della live music statunitense. Austin è una città fantastica, dove andrei a vivere anche subito se ne avessi la possibilità, una città dove il feeling texano si sposa con l’arte, la musica e un’attitudine progressista. L’atmosfera di alcune piccole città dove abbiamo suonato è diversa, ancora più diverse sono le città di Dallas e Houston, la seconda mi ha stupito per il numero esorbitante di cowboys e cowgirls che si incontrano per strada e nei locali. La mia impressione è stata di un ambiente cordiale, gentile ed accogliente, tenendo conto del fatto che ho frequentato praticamente solo l’ambiente musicale, che è straordinariamente ricco, con musicisti incredibili e frequentatissimo da giovani, meno giovani, appassionati e occasionali. L’impressione “da Europeo” che ho avuto è stata anche quella di un paese che ha smesso (o aveva smesso in quel periodo – ci sono stato tra Dicembre e Gennaio) di guardarsi fuori e ha ripreso a guardarsi dentro, a rifocalizzarsi sulle proprie tradizioni, culturali e artistiche. Non saprei se definirlo un neo conservatorismo, ma in qualche maniera ho percepito un ritorno verso un’identità, un focus su un’idea di “America” più tradizionale.
3-Hai uno stile molto intimo, personale la cui timbrica mi ricorda certo Leonard Cohen e soprattutto i dischi solisti di Mark Lanegan. Ci dici qualcosa in più sui riferimenti dai quali prende le mosse il tuo cammino?
AVC – Ho iniziato a suonare, come dicevo, a cavallo del cambio di secolo, in un’epoca in cui sentivo la mia identità, così come la maggioranza dei miei amici, nell’alternative rock (anche se da ascoltatore sono sempre stato onnivoro). Quindi iniziare a suonare significava avere quel tipo di influenze: il grunge, le band SST, il metal più contaminato, i solisti come Beck… Nel mio caso la band che ha acceso la voglia di mettermi a fare cose mie sono stati i Morphine, soprattutto per il timbro vocale di Mark Sandman, che stando su un registro basso mi permetteva di cercare di imitarne il cantato sforzandomi meno di quanto mi succedeva con le altre voci della storia del rock, che per me prendevano note irraggiungibili. Quindi mi sono dovuto adattare ai miei limiti, in un certo senso, e la cosa si è ripetuta con l’approccio strumentale, inizialmente estremamente basilare e poi lentamente più complesso e stratificato. Sempre i Morphine sono stati fondamentali nel capire che quello che conta sono le idee, se hai idee buone anche un approccio minimal è sufficiente, puoi anche far risaltare meglio la purezza dell’idea stessa, anche se -allo stesso tempo- imparare a padroneggiare meglio il proprio strumento e studiare sono sempre cose che ti permettono di avere più possibilità espressive e di avvicinarti sempre più alla migliore versione di te stesso, c’è poco da fare.
4-Tornando al cinema, mi incuriosisce sapere quali siano le tue preferenze anche negli altri campi dell’arte: letteratura, teatro, arti visive…?
AVC – Il cinema è da sempre una grande passione (Hawks, Lynch, Hitchcock, Peckinpah, Antonioni, Leone, …), ma anche la letteratura angloamericana e latinoamericana; ci sono troppi esempi che potrei fare e temo sarebbe un noioso elenco (Steinbeck, Auster, Thompson, Crews, Garcia Marquez, Lansdale…), cerco comunque di leggere non meno di un libro al mese, anche se ho poco tempo; solitamente romanzi, ma anche libri che si focalizzano su particolari periodi storici o anche alcune biografie musicali.
Chi mi conosce, inoltre, sa benissimo che sono un grande appassionato di fumetti, in particolare supereroistici Marvel, ma anche italiani.
Sulle arti visive mi manca competenza, purtroppo (adoro surrealismo e pittura metafisica), ma quando sono in vacanza con la mia famiglia e a volte anche in tour cerco sempre di visitare musei, di capirne di più, di apprezzare il senso di meraviglia che sorge spontaneo e quasi inconsapevole.
5-Qual è il concerto più clamoroso al quale hai assistito?
AVC – Whoa, domanda impossibile! Ce ne sono stati tanti, ma mi piace ricordarne due: Negli anni ’90 ho visto i Man, leggendaria band gallese, in un piccolo pub della valle in cui abitavo; non avevo nemmeno la patente, sono stato trasportato in un mondo parallelo per un paio d’ore, all’improvviso la storia del rock si era manifestata nei luoghi dovevo vivevo per prendermi a sberle, fu bellissimo.
Più di recente, pochi anni fa, io e la mia compagna abbiamo visto l’ultima incarnazione dei King Crimson agli Arcimboldi a Milano, audio perfetto, brani fantastici, esecuzioni sensazionali e gran botta sonora, ai confini dell’heavy metal. Penso non si possa andare più in là di così in termini di esperienza live.
6-Quali risposte hanno ricevuto i tuoi dischi? Ci sono commenti o critiche dei quali vuoi parlarci?
AVC – Devo dire che spesso i commenti sono davvero lusinghieri, in alcuni casi anche molto personali sul significato delle canzoni e il vissuto degli ascoltatori, e penso che sia onesto dire che la cosa mi fa molto piacere (come potrebbe non farmi piacere?), dopotutto continuare a fare dischi fuori dal mercato mainstream è una fatica allucinante, credetemi. I commenti più entusiasti e più diretti mi sono sempre arrivati dall’estero, così come i paragoni lusinghieri. Qui in Italia abbiamo qualche problema in più nello sbilanciarci su qualcosa che non sia già ampiamente sdoganato presso la critica, forse c’è qualche ragione occulta per la quale si pensa ancora oggi che gli artisti “rock” in senso lato in Italia siano in qualche modo inferiori al mondo anglo, ma è una sensazione che suonando all’estero scompare totalmente, addirittura la mia identità europea negli USA era vista come elemento di fascino. Ma è un residuo chiaramente ancora presente qui da noi. É una cosa che noto anche in tanti validissimi connazionali, che meriterebbero più considerazione e interesse soprattutto nella madre patria.
7-Trovo che la musica Italiana stia godendo di un ottimo stato di salute, tu che ne pensi? C’è qualche gruppo o solista che ti sentiresti di consigliarci?
AVC – Mah, forse i musicisti sono in salute, ma la musica in Italia sta vivendo un momento particolarmente difficile, con la scomparsa di spazi per l’underground e asservimento totale al mainstream di tutti (o quasi) i media. Mi chiedo come possa un progetto musicale di ragazzi al giorno d’oggi (penso anche al mondo hip-hop e relativi) avere tempo di confrontarsi col palco e con una dimensione reale, viva, della live music, se gli spazi si sono clamorosamente ridotti e si è creata una frattura incredibile tra underground e attività concertistica major o pseudo major. È come se si concepisse l’idea – direzionandola dagli addetti ai lavori verso gli artisti- di avere un progetto musicale non in chiave espressiva, ma solo in proiezione di un successo economico e di pubblico, con un conseguente livellamento verso il minimo comune denominatore e con il consenso come unico fine. É ovviamente una questione molto complessa, che andrebbe affrontata a sé. Riguardo agli artisti italiani, mi piace citare una band come i Messa, che ha fatto un paio di dischi davvero ben fatti e sta raccogliendo anche un certo successo; hanno fatto parecchie mosse giuste e hanno le idee chiare da sempre. Fra i solisti ti dico che ho sentito in anteprima il nuovo disco di Joseph Martone, cantautore italoamericano di base a Caserta, e l’ho trovato davvero un prodotto di livello. Inoltre ci sono davvero tanti, tanti musicisti giovani, preparatissimi e di valore, che meriterebbero tanta attenzione in più, ma se il dibattito musicale, anche da parte degli appassionati, verte al 99% sul pop mainstream penso sarà sempre più difficile per loro trovare spazio mantenendo coraggio e identità artistica.
8- So che è una domanda banale ma io la cerco sempre nelle interviste: quali sono i tuoi dieci dischi preferiti di sempre, quelli da isola deserta?
AVC – Questa domanda è un classico, e ogni giorno la risposta sarebbe diversa. Quindi oggi va così, domani chissà:
1) Kyuss – Sky Valley;
2) Pharoah Sanders – Thembi;
3) Fela Kuti – Gentleman;
4) Morphine – The Night;
5) Black Sabbath – Sabbath Bloody Sabbath;
6) Motorhead – No Sleep ‘Till Hammersmith;
7) Johnny Cash – The Original Sun Albums;
8) Tom Waits – Bone Machine;
9) Grateful Dead – Blues For Allah
10) Om – Advaitic Songs










