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Confessioni Di Una Maschera – Am I Evil?

Due sono le considerazioni che in conclusione dell'anno zero dopo l'avvento del covid-19 si rincorrono nella nostra mente.

CONFESSIONI DI UNA MASCHERA

FEBBRAIO DUEMILAVENTUNO

“AM I EVIL?”

 

Due sono le considerazioni che in conclusione dell’anno zero dopo l’avvento del covid-19 si rincorrono nella nostra mente. Inutile dire che sono per forza di cose intimamente legate e che da una dipenda l’altra. Partiamo dalla prima, non fosse altro che per il fatto che è l’argomento del giorno da diverse settimane a questa parte.

Vaccino sì. Vaccino no. Vaccino forse. Vaccino cosa?

Detto che per noi il vero vaccino è quello che dovrebbe andare ad agire a livello mentale più che fisico, non possiamo negare le nostre difficoltà nel cercare di dare un senso a tutto quello che sta accadendo.

“Mi sento chiuso in una morsa dalla quale mi sembra impossibile liberarmi”.

È questo il pensiero che più spesso si agita nella mia testa ogni volta che provo a riflettere sulla validità di ciò che è stato messo in atto per contrastare il virus. La stretta della morsa si manifesta con l’impossibilità nel venire a capo di risposte definitive (non gradite o sgradite, ma certe).

La mia professione mi impone di guardare alla scienza come l’unica strada percorribile.

Mi sento però al tempo stesso impossibilitato ad accettare tutto in maniera passiva come fosse un dogma della Fede. Mi spiego meglio, prima che si creino spiacevoli equivoci. Mi sono vaccinato e tornando indietro mi rivaccinerei. Mi chiedo però se sia stato appontato un antidoto all’altezza della situazione. Sotto tutti i punti di vista.

Fino ad oggi mi sono sottoposto a tutte le vaccinazioni del caso (non ultime quelle contro la tubercolosi e il meningococco di tipo C endemico nel Granducato di Toscana dove risiedo), e credo fermamente dal momento che è la storia che ce lo dice che quella vaccinale sia l’arma migliore a nostra disposizione. Resto però interdetto di fronte alla carenza di informazioni in ambito di vaccinazione anti covid-19.

Non contesto la composizione dei vaccini, non sono all’altezza di cimentarmi con questi argomenti, mi chiedo però come molte altre migliaia di persone:

1. tra quanto sarò immune

2. che tipo di immunità sarà

3. per quanto sarò immune

4. dovrò fare un richiamo annuale

5. a quali reazioni avverse o danni permanenti posso andare incontro

tutti quesiti a cui oggi non è possibile dare risposta.

In una situazione come questa, in cui noi sanitari stiamo in un certo senso facendo da cavia per la somministrazione del vaccino non è stato possibile ragionare in termini di rischi/benefici e non è stato nemmeno possibile sottrarsi alla vaccinazione in attesa di capire come meglio muoversi. Non c’era tempo per fermarsi a riflettere.

Mi sarei come detto vaccinato anche se le risposte alle cinque questioni di cui sopra fossero state lontane dalle mie aspettative, ma è inevitabile non pensare che tutto avrebbe potuto andare diversamente. La pandemia ha imposto un’accelerazione e una riduzione dei tempi di riflessione, in nome di una nostra passività mentale ormai troppo diffusa. Ci hanno tempestato di informazioni in modo martellante portandoci a pensare in modo subordinato.

È qui che si innesta la seconda considerazione.

Se, come detto, il vaccino idele è quello per le nostre menti, ciò significa che il danno maggiore lo abbiamo riscontrato a livello mentale. Dopo lo scoramento iniziale in cui tutto sembrava perduto ed eravamo animati da buoni sentimenti pian piano si è fatta strada in noi la nostra vera essenza interiore. Siamo tornati quello che eravamo prima della pandemia, se non peggio. Non siamo stati pronti a fare quel cambio di passo intellettivo che era necessario. La portata del covid-19 è stata tale che ci siamo fatti trascinare in uno stato semicatatonico dal quale non sappiamo se e quando ci riprenderemo.

La campagna di informazione anzichè puntare al mantenimento di una lucidità che permettesse di affrontare in modo adeguato la situazione, ha accentuato il lato drammatico del problema. Con la conseguenza che l’incertezza e le paure che ci sono state inculcate ce le porteremo dietro per anni, con un impatto negativo soprattutto sul nostro già precario sistema nervoso.

Rispetto alla crisi economica di cui tutti parlano in pochissimi pongono l’accento sui problemi psichici derivanti da questi tredici mesi di isolamento e chiusura forzata. Se per assurdo i danni economici potranno (forse) un domani essere risarciti, chi riparerà alle psicosi di chi ha avuto un crollo mentale? Gli investimenti devono andare verso quei settori che necessitano di un aiuto, questo è fuori di dubbio. Ma a noi mentalmente fragili chi ci pensa?

Ma non solo. Se dobbiamo guardare al futuro, è inevitabile pensare alle nuove generazioni. È qui che si pone nuovamente l’accento. Il loro presente, fatto di DAD, di mancanza di contatto fisico, di interazione tra coetanei finirà per influenzare negativamente il loro sviluppo psichico? Tra le tante libertà a loro negate siamo certi che quella di non poter fare le esperienze che l’età imporrebbe non possano andare a condizionare la loro indipendenza a livello di critica e di pensiero libero?

La reclusione è un problema per tutti coloro che devono/vogliono guardare al domani, non certo per noi cinquantenni che ci crogioliamo tra pessima musica e libri intellettualoidi in cerca di una sublimazione alle angherie dell’esistenza. A noi, alla fine, restare a casa non ci disturba più di tanto. Siamo in fase calante, dateci quelle piccole certezze quotidiane, non chiediamo altro.

Ci preoccupa però, e non poco, la salute mentale di chi dovrà prendere il nostro posto. I nostri figli si sono immediatamente adattati al lockdown forzato. Restare in casa è uno status quo a cui si sono adeguati. La tecnologia permette loro di fare tutto ciò che desiderano senza muoversi da casa. Strada che avevamo in parte già imboccato anche noi finto adulti prima dell’avvento del covid-19, ma che ora stiamo percorrendo tutti quanti insieme a grande velocità.

È, secondo noi, l’assenza di un confronto interpersonale il vero male del secolo appena iniziato, pandemia a parte. Oramai ci si confronta solo sui social network e quasi sempre lo facciamo per insultarci o comqunque per prevaricare i nostri interlocutori. Sapremo invertire la rotta e tornare a guardarci in viso mentre parliamo?

In chiusura, restando in argomento, non posso non dedicare due parole alla figura che nell’immaginario collettivo ha bruciato le tappe nell’anno zero del covid-19.

Il negazionista.

Mi sono sempre chiesto una cosa: il negazionista è colui che raggiunge un livello superiore dopo essere nato complottista o le due figure sono separate? Battute a parte ribadisco una volta per tutte che non c’è e non ci sarà mai spazio per interazioni con costoro. Ma per un motivo molto semplice: il vero negazionista sono io, dal momento che nego la loro esistenza.

Non mi interessa e non mi accresce confrontarmi con loro, non posso scendere ad un livello così basso. Mi fermo prima di farmi schifo da solo. Non ce la faccio proprio. Sono tanto negazionista quanto razzista. Figlio di un razzismo alla Battiato, quando nel suo splendido “La voce del padrone” (1982) affermava di “non guardare programmi demenziali con tribune elettorali” in virtù di una (manifesta) superiorità intellettiva. Fatevene una ragione. Io e Battiato (ovunque lui sia) siamo l’archetipo del negazionista 2.0 voi siete solo dei dilettanti cui internet ha dato visibilità.

 

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Una risposta

  1. Datemi la tutina di Actarus con tanto di caschetto e un mini respiratore da usare quando i luoghi si fanno troppo affollati..

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