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Webzine dal 1999

Columns

Il nostro modo di dire la nostra: pensieri spesso sconclusionati, ma veri che emozionano.

L’intransigenza Del Piffero

Dall’alto della mia infosfera, quella bolla di sapone virtuale che contiene me e il mio mondo digitale e terrestre, insomma, il mio universo vitale (ciascuno ha il suo e sempre lo ha avuto anche prima dell’avvento di internet nelle nostre vite),

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napalm death

Perfetto Connubio Tra La Musica E Le Idee

Capita a volte, lasciando andare la mente libera per la propria strada che ci si ritrovi di colpo, senza volerlo, a pensare alle cose piu’ strane, e perchè no, a volte anche piu’ folli.

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Prof. Bad Trip

L’incontro con GIANLUCA LERICI ha rappresentato un punto di svolta nella mia vita.

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Il Segno Del Comando

Sulle ali dell’entusiasmo per il tanto sospirato concerto de Il Segno del Comando dello scorso giugno sono tornato a riguardarmi i cinque episodi dello sceneggiato andato in onda nel lontano [purtroppo troppo lontano anagraficamente parlando] 1971 sulla RAI [al tempo eravamo in regime di assoluto monopolio, le “TV libere” erano ancora un qualcosa di inimmaginabile, giusto le radio si sarebbero emancipate da lì a pochi anni]. Rivisto con gli occhi di oggi i limiti sono evidenti, soprattutto da un punto di vista tecnologico e scenografico, ma nonostante tutto passando ancora in secondo [se non in terzo] piano, schiacciati dalla qualità globale del girato, dalla sceneggiatura, dalla capacità degli artisti di rendere credibili i propri personaggi. Non so quanti di voi abbiano avuto modo di vedere le cinque puntate andate originariamente in onda tra il maggio ed il giugno di quell’infausto settantuno ora comodamente recuperabili sia in vhs che in DVD e addirittura disponibili in formato integrale su Youtube. Il modo per rimediare a quella che secondo noi è una lacuna [pur se nongrave] quindi è più che mai alla vostra portata, il nostro è un consiglio spassionato, forse figlio di un momento di entusiasmo, ma visto che le vostre giornate continuano ad essere sostanzialmente prive di significato perché non provare a dare una possibilità allo sceneggiato di Daniele D’Anza? Un antico medaglione raffigurante una civetta, una locanda di Trastevere che appare solo di notte e un diario scritto da Byron durante il soggiorno romano, questi gli ingredienti fondamentali dello sceneggiato. Le oscure avventure in cui viene a trovarsi il professore di letteratura inglese Edward Lancelot Forster sono un concentrato che mischia gotico, giallo e fantastico tra riferimenti pagani ed occultismo. Osannato dagli spettatori [ascolto medio 14.800.000…] e al tempo stesso snobbato dalla critica “Il Segno del Comando” resta tuttora un piccolo gioiello che affascina e coinvolge anche a distanza di quasi mezzo secolo. Il bianco e nero in cui si specchiano i vicoli di una Roma deserta e barocca coma non mai accompagna le vicende di Forster [Ugo Pagliai] in cerca di quel pittore Tagliaferri [di cui lui si renderà conto di essere un sosia perfetto] che lo ha invitato a Roma per una conferenza che scoprirà essere morto ben 100 anni prima, fanno da sfondo ideale per una vicenda dai forti tratti esoterici in cui spicca la figura della sfuggente Lucia [una Carla Gravina bella oltre l’immaginabile] che contribuisce ad infittire i misteri, il tutto mentre la data della conferenza a cui deve partecipare il letterato inglese [che è la stessa della morte del pittore Tagliaferri, deceduto alla sua stessa età] si avvicina precipitosamente. Non vogliamo andare oltre con la trama, non intendiamo rovinare la visione ai pochi volenterosi e coraggiosi che si imbarcheranno nell’impresa di sfidare le oltre sei ore che compongono lo sceneggiato. Ciò che ci piace sottolineare invece è come questo sia un prodotto che non permette distrazioni e divagazioni tra social network e telefonate, ogni parola ha un suo peso specifico di cui solo il tempo a venire sancirà l’importanza. Occorre tutta l’attenzione di cui siete capaci se pensate di guardarlo, non pensiate di trovarvi tra le mani un qualcosa di leggero e scorrevole da seguire a tempo perso. Non è questo il caso. Rischierete di trovarvi in un vortice di confusione dal quale uscireste solo abbandonando la visione. I tempi sono in netto contrasto con la velocità del girato d’oggi, l’azione ha uno spazio limitato [e funzionale al contesto narrativo] i dialoghi su cui si regge quasi tutto il prodotto sono legati al contesto storico di quegli anni, non ci sono concessioni a volgarità anche solo velate o agli “slang” attuali e ai neologismi di cui ci cibiamo oggi. C’è un alone aulico e melodrammatico che lega il tutto e si sposa ala perfezione con la magia [nera] di una città che sembra rinascere sotto altre spoglie riscrivendo nuovamente i suoi confini che vedrà magicamente scomparire al nascere del giorno, quando alla luce fioca dei lampioni si sostituisce il maestoso sorgere del sole che spazza via fantasmi e reincarnazioni, maledizioni e congiure, cui solo il manoscritto sopravvive. Rileggendo le rassegne stampa del tempo ci ha colpito come non si tendesse a dare credito al programma tacciandolo di illogicità e di essere troppo irrazionale, anche se non mancano plausi soprattutto incentrati sulla capacità di tenere legati al video i non pochi spettatori che ogni domenica sera accendono i loro apparecchi televisivi. Alcune [poche purtroppo] voci fuori dal coro sottolineano come “se l’avessero girato gli inglesi, che sono maestri nel genere, sarebbe un capolavoro” e puntano il dito sulla tensione sempre palpabile ed ininterrotta che costituisce la spina dorsale dello sceneggiato. Tra le leggende legate allo sceneggiato ricordiamo e segnaliamo quella legata al finale, che il regista D’Anza dovette girare ben cinque volte perchè incapace di dare una completa quadratura del cerchio [e che ovviamente non riveliamo in questa sede]. Da ricordare anche che il soggetto originariamente era stato preparato ben tre anni prima, nel 1968 ma solo dopo trentasei mesi di ripensamenti mamma RAI decise di mandarlo in onda sulla principale delle sue due reti nazionali. Non a caso una delle cose inconcepibili per il tempo della messa in onda è la tematica “necromantica” della ricerca dell’immortalità con la morte e l’eterna ripetizione del ciclo della “dannazione” che fanno da contraltari. Nemmeno oggi si realizzano prodotti così specificatamente inquadrati all’interno del misticismo negromante di cui è pregno Il Segno del Comando. Assuefatti come siamo a tette e culi, morti in tempo reale e voyeurismo da Pronto Soccorso non saremmo a nostro avviso in grado di calarci nei meandri orditi da D’Anza, troppo presi dai tempi scanditi dalle interruzioni pubblicitarie e dalle nostre socializzazioni virtuali iPhones alla mano. Abbiamo bisogno di qualcosa di più facilmente accessibile, di rassicurante e che non ci faccia pensare troppo. Tutto l’esatto contrario di quello che Il Segno del Comando significa e rappresenta. IL SEGNO DEL COMANDO [RAI 1971] REGIA Daniele D’Anza, SCENGGIATURA Giuseppe D’Agata, Flaminio Bollini, Dante Guardamagna, Lucio Mandarà, FOTOGRAFIA Mario Scarpelli, MUSICHE Romolo Grano, SCENOGRAFIA Nicola Rubertelli, COSTUMI Giovanni La Placa, INTERPRETI Ugo Pagliai, Carla Gravina, Paola Tedesco, Massimo Girotti, Franco Volpi, Rossella Falk, Carlo Hintermann, ecc… [BIANCO E NERO, SEI EPISODI DA 60′ CIASCUNO]

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the prisoner

The Prisoner

THE PRISONER Il termine CULT ha raggiunto ormai un tale livello di sovraesposizione nel gergo quotidiano che ce lo rende insopportabile, un po’ come il vomito di prima mattina che trovi a bordo letto dopo una notte di bagordi e di cui non ti ricordi assolutamente nulla. Ragion per cui non definiremo né ora né mai THE PRISONER come una serie CULT. Ci limiteremo, certi di avvicinarci in modo quasi perfetto [vista la nostra padronanza pressoché assoluta ed irraggiungibile della lingua italiana] a dipingerla come “imprescindibile, avveniristica e fondamentale”. Noi che odiamo le definizioni e le classificazioni utili solo a decidere in quale scaffale del supermercato esporre gli oggetti da vendere al pubblico andiamo oltre tutto questo. Non stiamo qui a raccontarvi belinate sul fatto che si tratti di fantascienza oppure di fantapolitica, sono tutte cazzate. THE PRISONER è un ottimo esempio di intrattenimento intelligente [correva l’anno 1967 quando fece la sua comparsa in televisione, fate voi…] che invita a ragionare su argomenti per nulla secondari, volutamente lasciati ai margini dall’intellighenzia di regime. Noi che ci facciamo belli sempre e comunque arriviamo qualche anno dopo. La prima messa in onda sugli schermi italici è infatti datata 1974. E’ RAIDUE a mandare in onda alcuni episodi in ordine sparso. La serie completa arriverà nelle nostre case solo nel periodo a cavallo tra il 1980 e il 1981. “IL PRIGIONIERO” è un ex agente segreto britannico, che per tutta la durata della serie conosciamo solo come NUMERO SEI. L’incipit della serie lo vede rinchiuso in un piccolo villaggio abitato da una serie imprecisata ed indefinita di figuri anche loro identificati con un numero progressivo. La sua reclusione forzata è il tentativo da parte dell’autorità di capire [o forse sarebbe meglio dire carpire] i motivi del suo pensionamento volontario dal ruolo di spia. Il ruolo di oppositore [e aguzzino] è rappresentato dal NUMERO UNO [che mai compare se non nell’ultima puntata] che esercita il proprio controllo sul villaggio tramite il suo fedele NUMERO DUE [la mente ed il braccio]. Lasciando momentaneamente da parte la trama [anche perché non ci interessa raccontare cosa succede o non succede ma ragionare sul significato degli eventi] non possiamo non riflettere su quelli che sono i temi trattati nelle varie puntate. Come detto siamo negli anni sessanta, questo è bene non scordarlo mai, e quindi occorre contestualizzare gli argomenti. Ciò nonostante i contenuti [tutt’altro che nascosti] di THE PRISONER creano un impatto assolutamente avveniristico e per certi versi rivoluzionario. La fantascienza di cui sopra dicevamo è solo il punto di partenza, il terreno sul quale edificare tutta una serie di sotto argomenti di controcultura dalla portata dirompente che si alternano e si susseguono per le diciassette puntate. Ipnosi, tortura psicologica, droghe allucinogene, controllo della mente, ma anche la manipolazione dei sogni e non ultimo il furto di identità. Queste le prime [ma non le sole] tematiche che trovate spalmate nei vari episodi. Per noi che di musica ci nutriamo quotidianamente è ancor più bello parlare di THE PRISONER, visto che la serie è stata fonte di ispirazione per non poche realtà musicali negli anni. A partire da quella che è a noi più cara, vale a dire lo scambio di battute tra il NUMERO SEI e il NUMERO DUE che si chiude con il fatidico “I’m not a number! I’m a free man!” usato dagli IRON MAIDEN nel brano “The Prisoner” [1982 – album “The number of The Beast”]. Ma non solo. Sono davvero molte le citazioni che rendono omaggio alla serie. Come dimenticare i DEATH IN JUNE che all’interno dell’EP “93 Dead Sunwheels” del 1989 inseriscono dei campionamenti in loop tratte da diversi episodi. O ancora i JETHRO TULL che omaggiano “The Prisoner” nel video di “Sweet Dream” con la presenza dei PALLONI ROVER che catturano Ian Anderson, oppure i DEVIL DOLL che realizzano un concept album [“The Girl Who Was… Death”] ispirato alla serie o per finire la band mod THE TIMES ed il loro singolo “I Helped Patrick McGoohan Escape” del 1980. In ambito cinematografico invece tra le tante citazioni ci piace segnalare in particolare KILLING ZOE [ coi due protagonisti che nella scena iniziale discutono del terzo episodio “Dormire, forse sognare”], ALTA FEDELTA’ [John Cusack chiede a Jack Black come si chiama l’attore della serie TV The Prisoner], MATRIX [nella sequenza finale mentre Neo è all’interno della stanza una TV accesa trasmette una puntata di The Prisoner] e THE TRUMAN SHOW [con chiari riferimenti tra cui le tende ed il carattere tipografico usati nel villaggio]. Ma il numero più alto di citazioni spetta [inevitabilmente] alle serie televisive che hanno attinto a mani basse nelle tematiche rituali di THE PRISONER.   Tra le tante ricordiamo LA DONNA BIONICA [nell’episodio finale si vede la protagonista dimettersi dal suo lavoro per poi dover eludere gli agenti del governo che cercano di imprigionarla in un villaggio per gli agenti speciali pensionati], IL TENENTE COLOMBO [in un episodio Patrick McGoohan cioè il NUMERO SEI, interpreta proprio una spia], BATTLESTAR GALATTICA [il personaggio interpretato da Tricia Helfer si chiama “6”], FRINGE [nell’episodio 3×01 “Olivia”, mentre la vera Olivia Dunham è rimasta nell’universo alternativo, scendendo le scale che portano a un parco pubblico, incrocia un uomo in sella a una penny farthing. Nell’episodio 4×19 “Letters of Transit”, Walter Bishop viene scambiato per un prigioniero e apostrofato come “The Prisoner”. Al che Walter risponde: “I am not a number – I am a free man”] e infine LOST [i prodotti distribuiti dal Progetto DHARMA hanno le etichette stampate utilizzando il carattere tipografico che viene usato nel Villaggio]. Noi che abbiamo fatto della lotta al modernismo ed alla tecnologia incontrollata ed alienante la nostra battaglia sguazziamo come porci nel trogolo nelle tematiche della serie. In particolare ci piace rotolarci insieme all’idea che nel villaggio non piova mai e che il bel tempo contribuisca a regalare tranquillità e buonumore. Segno evidente della persuasione occulta e sul controllo subliminale [non ultima la ripetizione continua del refrain “oggi sarà un’altra giornata di sole”]. Per non parlare della somministrazione serale obbligatoria ed occulta di sedativi per garantire il riposo notturno. Azione orientata a denunciare l’uso indiscriminato dei farmaci e le lobby farmaceutiche. [ricordiamo sempre a chi se lo fosse scordato che siamo negli anni sessanta, mentre qui si ballano i watussi..] Il punto fondamentale intorno a cui a nostro avviso ruota il tutto però sta nella trasformazione della domanda chiave cui far riferire tutti i ragionamenti. Se inizialmente si poteva pensare a DOVE FOSSE il villaggio a seguire troviamo un COME FUGGIRE dal villaggio per poi giungere alla domande realmente importante, vale a dire CHE COSA FOSSE il villaggio. Per cui è chiaro che la posizione geografica può essere ovunque, non è questo che conta, non è il villaggio ad essere identificato come il nemico ma l’avanzare incontrollato della tecnologia. Che tra le altre cose viene schernita dal simbolismo della bicicletta [simbolo del villaggio] un modello antiquato in un contesto moderno di ipertecnologia. Il controllo altrui sul modello dei servizi spionistici sulla falsa riga della STASI o del KGB è evidente come richiamo nel momento in cui ci si rende conto che il villaggio non è una prigione per soli ex agenti segreti, ci sono infatti tutta una serie di controllori che spiano gli altri abitanti per poi riferire al NUMERO DUE ogni comportamento sospetto. Il ruolo del NUMERO DUE è tanto controverso quanto semplice. In ogni puntata abbiamo un diverso NUMERO DUE ma resta invariato il suo compito, che è quello di estorcere al NUMERO SEI il perché della su scelta di abbandonare il servizio. Come a voler dire che non ha più importanza l’individuo in quanto tale [inteso come singolo] quanto il ruolo da egli svolto. Anche l’idea della dislocazione nascosta agli occhi dei più [centro sotterraneo] del centro di controllo dove vengono anche perpetrare torture fisiche e psicologiche funge da richiamo per distopie orwelliane sulla falsa riga del Grande Fratello [1984]. Qui tra monitor e nastri su cui vengono registrare tutte le conversazioni degli abitanti del villaggio pare di essere in un cento di controllo di tipo militare. Oltre alla sicurezza passiva, dal centro di controllo vengono attivati anche i ROVER, i grandi palloni, in grado di seguire i movimenti di eventuali fuggiaschi, e di bloccarli “ingoiandoli” al loro interno, fino a causarne lo svenimento, e in alcuni casi la morte. Abbandonando le macchine per tornare invece per un attimo all’uomo non è semplice definire i caratteri dei personaggi. A partire dal protagonista [NUMERO SEI] di cui non ci vengono fornite che pochissime informazioni. Sappiamo solo che è un agente segreto che ha rassegnato le dimissioni dal suo posto di lavoro. Per tutta la serie non viene mai pronunciato il suo nome, così anche lo spettatore è costretto ad identificarsi in un uomo rappresentato da un numero, ma che rifiuta fermamente questa condizione. Il nemico occulto possiamo identificarlo con il NUMERO UNO. Soggetto ambiguo e fuggevole che oltre a non apparire mai non fornisce nemmeno segno della sua reale e tangibile esistenza. Solo nell’episodio

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WERNER HERZOG AGUIRRE, FURORE DI DIO

Werner Herzog Aguirre, Furore Di Dio

WERNER HERZOG AGUIRRE, FURORE DI DIO [1972] Italia, millenovecentosettantadue. Siamo nel pieno degli anni dello stragismo e della contestazione sociale. L’Italia è un fermento incontrollabile di idee, spesso confuse, in alcuni casi [tutt’altro che sporadici] addirittura sbagliate, gridate a squarciagola e difese come fosse in gioco la vita stessa dei ragazzi che si fronteggiano nelle strade. Siamo in lotta contro “il sistema” statale che soffoca le idee di rinnovamento che infiammano i cuori dei giovani. Il percorso di autodistruzione ancora non è giunto a termine e sono ancora lontani i giorni del distacco e dell’analisi di ciò che sta andando in scena. Le carceri sature di “prigionieri politici” scoppiano, non si contano le rivolte dietro le sbarre dove trovano posto, insieme ai delinquenti comuni, anche un vasto numero di extraparlamentari di ogni tipo di schieramento. Fuori, nei palazzi che contano Giulio Andreotti presiede il suo primo governo in qualità di Presidente del Consiglio, nelle aule di giustizia intanto si celebra il processo per la strage di piazza Fontana, muore in seguito al fallito attentato da lui stesso ordito Giangiacomo Feltrinelli. Dopo pochi mesi medesima sorte toccherà anche al commissario Luigi Calabresi, mentre in estate vengono casualmente ritrovati da un sub nel mare della Calabria due statue bronzee che saranno rinominate i Bronzi di Riace, e alle Olimpiadi di Monaco di Baviera va in scena il massacro degli atleti israeliani ad opera di Settembre Nero. Nel cinema per l’Italia è un anno memorabile. A Berlino l’Orso d’Oro è vinto da Pier Paolo Pasolini con “I racconti di Canterbury”, a Cannes vicono la Palma d’Oro ex aequo due film italiani: “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri e “Il caso Mattei” di Francesco Rosi, infine a Los Angeles Vittorio De Sica vince l’Oscar con “Il giardino dei Fintzi Contini”. Ma è in Germania che il cinema [quello con la C maiuscola] lascia il proprio segno indelebile. Esce infatti a fine anno nelle sale il primo film vero e proprio del regista bavarese Werner Herzog. AGUIRRE, DER ZORN GOTTES il titolo originale, prontamente [e per una volta correttamente] tradotto in AGUIRRE, FURORE DI DIO. Dopo una serie di documentari dedicati a tematiche soprattutto sociali, Herzog decide di fare il grande passo e realizza con un budget piuttosto ridotto per l’epoca [di cui almeno un terzo destinato a Klaus Kinski, l’interprete principale] un piccolo capolavoro che non tarderà a diventare un cult movie assoluto per tutte le generazioni a seguire. L’idea viene a Herzog in modo del tutto casuale, legge infatti distrattamente un trafiletto riguardante la vicenda di tale Lope de Aguirre, condottiero spagnolo che si recò in Sud America sulla scia dei suoi predecessori Cortez e Pizarro in cerca del fantomatico El Dorado alle sorgenti del Rio delle Amazzoni [luogo inventato dagli Incas per portare a morte tramite autodistruzione i conquistadores oppressori] finendo per andare disperso nella giungla insieme ai suoi fedelissimi. È il tema legato al grande fallimento [in questo caso legato all’impresa dei conquistadores] che spinge Herzog a partire per il Sud America senza uno stralcio di sceneggiatura, eccezion fatta per il viaggio sul fiume che concluderà la pellicola, unico storyboard preparato per l’occasione. Le riprese durano all’incirca due mesi e sono caratterizzate dal “realismo herzoghiano” che impone di non ricostruire alcun set ma di svolgere tutto sul campo, in totale regime di improvvisazione. Stesso discorso per tutte le comparse, che vennero infatti reclutate al momento dell’arrivo in Perù senza accordi preventivi. Per il ruolo di Aguirre la prima scelta di Herzog cadde sul presidente algerino Boumedienne, che per ovvie ragioni declinò l’invito. Fu allora che Herzog decise di interpellare Klaus Kinski, senza immaginare che quel momento avrebbe segnato il loro futuro insieme. Tutti i film principali [e meglio riusciti] del cineasta bavarese infatti sono da iscrivere al periodo d’oro del loro rapporto, nato in modo del tutto casuale, visto che i due condividevano due stanza del medesimo appartamento, pur senza aver legato in modo particolare, almeno fino a quel momento. L’intuizione di Herzog fu quindi fondamentale per entrambi, ma soprattutto per il film. Kinski, nonostante le follie durante le riprese, diede spessore al personaggio, andando a caratterizzarlo in modo decisivoa livello di presenza scenica con la caratteristica claudicatio, lo sguardo allucinato e al tempo stesso esaltato, estatico e superomista. Ovviamente da qualche parte la presenza ingombrante di Kinski doveva farsi sentire. E infatti i problemi non tardarono ad arrivare, con ritaradi e disguidi in sede di realizzazione. Ma non solo. Sono passate alla storia le litigate tra i due, ma anche tra Kinski [che pretendeva un trattamento di favore, quasi da star, sia in termini economici che di sistemazione alberghiera] e il resto della troupe ma anche nei confronti degli indios. Scena che si ripeterà anche sul set di Fitzcarrado dove gli indios arriveranno addirittura a offrirsi ad Herzog come assassini materiali di Kinski per conto suo. Alla fine, nonostante Kinski, il film andò in porto e tutto venne accantonato, per poi riesplodere puntuale alla pellicola seguente. Il percorso di distacco dalla realtà per l’attore era difatti solo all’inizio. Celebre la litigata in cui apostrofa Herzog come “regista di nani” [evidente riferimento a “Anche i nani hanno cominciato da piccoli” di due anni prima] con quest’ultimo che pistola alla mano minaccia di ucciderlo con otto pallottole riservando l’ultima per se stesso. Con un contorno del genere AGUIRRE, DER ZORN GOTTES non poteva non diventare un capolavoro. Sin dalle prime batture. Il film ha infatti nella sua scena iniziale uno dei momenti più alti della filmografia non solo di Herzog ma del cinema tutto. Indimenticabile la sequenza che segue i titoli di testa con la spedizione carica di bagagli che avanza scendendo dalla montagna, attraverso impervie mulattiere in mezzo a mille difficoltà, accompagnata dalle note sognanti di Popol Vuh. Il tutto prima preso in campo lunghissimo e poi pian piano ravvicinato fino al dettaglio grossolano. Spunta infatti anche la mano di Herzog stesso, che si muove a fatica negli spazi disagevoli, con la cinepresa in spalla che aiuta il passaggio dei conquistadores in un momento di particolare difficoltà prima che cadano a terra. È solo una frazione di secondo, un movimento quasi impercettibile ma che racconta tutto il mondo di Herzog attraverso un gesto. Anzichè girare nuovamente la scena la lascia esattamente com’è. Fregandosene della propria mano che irrompe nello schermo. Che dire ancora di Kinski/Aguirre senza rovinare la visione a coloro che ancora non hanno visto il film? Aguirre, inizialmente defilato, diventa il personaggio cardine della pellicola nel momento in cui si ribella al volere di Pedro de Ursua, il condottiero scelto da Pizarro per la missione esplorativa. Gli eventi nefasti che stanno spingendo la truppa verso il ritiro sono il pretesto da cogliere al volo per prendere il comando della situazione e come dice Herzog “diventare il primo conquistatore ribellatosi al colonialismo”. Ma, aggiungiamo noi, anche il simbolo del fallimento improcrastinabile. Ben consapevole che la missione non potrà che terminare in disfatta Aguirre decide comunque di non abbandonarla. I veri nemici della spedizione catastrofica alla fine non saranno tanto gli indios che in tutti i modi cercheranno di ostacolarne l’avanzamento ma la natura stessa [il fiume, ma anche la vegetazione] che si oppone alla profanazione altrui guidata da Aguirre. Il contorno che diventa personaggio. E con il proprio infinito propagarsi risucchia nel ventre della follia la combriccola esplorativa. Sarà proprio il finale del film con l’inversione dei ruoli a sancire un altro momento indimenticabile. Mentre la zattera di Aguirre, con l’equipaggio ormai più che decimato, va alla deriva si ha il ribaltamento dell’azione. La natura è ora a dominare i giochi, con i vortici del fiume e le correnti, con Aguirre e il cadavere della figlia [con cui avrebbe voluto incestuosamente creare la razza pura] immobili attendono il proprio destino, mentre le scimmie assaltano la zattera e ne prendono possesso. Si realizza l’inevitabile fallimento di un’ascesa indirizzata ad un obiettivo irragiungibile e fuori dai propri limiti. Un film epocale, sotto tutti i punti di vista. Che aspettate a farlo vostro?

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Gemini Festival Il Primo Network Di Radio Indipendenti

Radio, networking, libertà di contenuti. Il sogno di una comunicazione diversa si concretizza nella prima rete di radio indipendenti italiane, Gemini.  Dal 18 al 20 settembre si svolgerà a Perugia nella caratteristica cornice del parco Sant’Angelo, all’interno delle attività previste dal T.Urb.Azioni – Azioni Urbane con il turbo! promosso dall’associazione, Ya Basta! Perugia, il primo festival di Gemini, il network nazionale di radio indipendenti. Al momento si tratta di una decina di realtà interessate, disseminate in tutto il territorio nazionale, che si sono unite nei mesi scorsi per dare vita a una piattaforma web su cui inserire i materiali delle varie webradio – dirette, podcast, video – e costruire anche contenuti condivisi, con una redazione nazionale in costante contatto. Il network si è costituito nel mese di maggio, in seguito a un’assemblea telematica partecipata, oltre che dalle realtà radiofoniche anche da molte singole figure che si sono messe a disposizione del progetto. Ma la gestazione della rete affonda le sue radici in Press To, una rassegna radiofonica organizzata da alcune delle radio fondatrici di Gemini nell’aprile 2018 (ripetutasi l’anno successivo nello stesso periodo). Queste le realtà al momento presenti in Gemini: Radio Sherwood (Padova), Radio Sonar (Roma), Lautoradio (Perugia), Radio Roarr (Pisa), Radio Ciroma (Cosenza), Radio Città Aperta (Roma), Radio No Borders (Milano), Radio Rogna (Sarzana), Radio Beatnik (Campobasso), Neu Radio (Bologna), Better Radio (Biella), Radio Quarantena (Roma), Free Underground Tekno (Milano).   Il Festival, oltre a permettere quindi l’incontro tra le tante radio presenti nel network, avrà diversi momenti laboratoriali e di dibattito riguardanti le tematiche della comunicazione radiofonica, emerse in maniera forte durante il lockdown.  La chiusura totale dovuta alla pandemia di Covid19 in Italia, come nel resto del mondo, ha stimolato la proliferazione di numerose webradio con la relativa produzione di contenuti originali come podcast, approfondimenti e inchieste. Durante il Gemini Festival si cercherà dunque di definire collettivamente sia lo stato attuale della situazione sia le future traiettorie che lo strumento-radio potrà percorrere a partire dall’attuale contesto. In attesa del programma definitivo è possibile seguire Gemini al sito https://gemininetwork.it/ e sui canali social:   Facebook: https://www.facebook.com/GeminiNetworkRadioIndipendenti Instagram: https://www.instagram.com/gemini_network_/

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