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Recensione : The Warlocks – The manic excessive sounds of…

Non lasciatevi spaventare dalla lunghezza media dei brani, perché tra i solchi di “The manic excessive sounds of“, nuovo lavoro sulla lunga distanza degli statunitensi Warlocks, troverete una neopsichedelia riverberata, satura e distorta dai toni shoegaze/drone caldi e sognanti che tutto fa, fuorché farvi annoiare e/o sbadigliare.

L’ormai veterano combo californiano, in pista dalla fine dei Nineties – avendo, come stelle polari ispirative, Velvet Underground, Spacemen 3, Spiritualized, Jesus and Mary Chain, Telescopes e tutto il filone indie/psych rock – e dalla line up cangiante (della quale ha fatto parte, per un periodo, anche Anton Newcombe) ma sempre incentrata sulla figura del membro fondatore, frontman, songwriter e polistrumentista Bobby Hecksher, giunge al suo quattordicesimo studio album complessivo, uscito a inizio agosto su Cleopatra Records, e arriva a due anni dal precedente lavoro (dedicato al fratello di Bobby, deceduto a causa di un cancro) “In between sad“.

Il full length tiene fede al suo titolo, perché i sette losangelini presentano davvero suoni “eccessivi” nel loro strabordare in durata, qualità compositiva e decibel; frutto di una vena compositiva ritrovata, dopo un periodo di blocco creativo, Hecksher e soci (J.C. Rees ed Earl V. Miller alle chitarre; Marlena Schwenck al basso; Oscar Ruvalcaba alla batteria; Rob Campanella all’organo ed Elina Yakubova al tamburello e percussioni) parlano di fragilità e precarietà nelle relazioni sentimentali e interpersonali che si intrecciano coi tempi folli e paranoici che il mondo sta subendo nell’opener “It’s a fucked-up world“, otto minuti tra distorsioni, cacofonia, stop-and-go e cambi di mood. “You can’t lose a broken heart” si attesta su canoni indie/pysch più classici, tra momenti calmi ed elettriche deflagrazioni nel ritornello, “We are all lost” è puro Nineties indie rock dal feeling malinconico alla Built To Spill (corretto J.Mascis) e più o meno sulla stessa linea viaggiano le successive “A duel between you and I” e “Stars on sunset“, sospese tra melodie “musone” ed esplosioni chitarristiche. Se la parte centrale dell’opera è impostata su binari più ordinari, con “The dotted line” si ricambia registro tornando su lidi dream/psych cari a Spiritualized e Brian Jonestown Massacre, e la parte finale ricatapulta l’ascoltatore in vortici space rock lisergici con “Don’t blame it on the band” e, soprattutto, la lunga coda strumentale “Don’t blame it on the jam“.

Se volete un consiglio spassionato, fate vostro questo album e, soprattutto, presenziate e fate sentire il vostro appoggio ai concerti che band come i Warlocks (e molte altre indipendenti) potranno ancora tenere, in futuro, in Italia, nei piccoli locali, nei centri sociali (o almeno, quelli che i fasci al governo non hanno ancora chiuso o fatto sgomberare) negli spazi autogestiti, insomma, supportando quel poco di resistenza (contro)culturale che ancora prova a opporsi, nel nostro “bel Paese”, in questi tempi cupi, al dilagare della speculazione edilizia, della gentrificazione e della turistificazione delle città medie e grandi italiane (anche se il problema non è solo nostrano) che il neoliberismo capitalista globalizzato sta trasformando in sterilizzate Disneyland-parco giochi per ricchi facoltosi, in metropoli a misura di milionari snob, tra caro-affitti, carovita, grattacieli lussuosi e bolle immobiliari, in cui ogni forma di dissenso e protesta sociale/politica viene anestetizzata e repressa con la forza dal Potere (mentre in compenso, le associazioni neofasciste sono ancora libere di occupare immobili abusivamente e scorrazzare impunite e protette dai loro amichetti del governo della grande premier statista donna e madre kristiana, perché la “tolleranza zero” e la clava della “legalità” vengono usate solo quando conviene ai padroni e ai loro giullari di regime che magnificano, sui media, le loro gesta e il doppiopesismo adottato dai “patrioti sovranisti” italioti che fanno i gradassi coi più deboli e poi si prostrano, da bravi cagnolini ammaestrati e scodinzolanti, ai piedi del capo parruccone yankee a stelle e strisce) che punta a distruggere ogni tipo di associazionismo sgradito al sistema per sostituirlo con la “cultura” tossica machista della guerra e la dittatura del consumismo spersonalizzante imposto alle masse a colpi di centri commerciali, megastores e supermercati che sorgono in ogni dove. Lp come “The manic excessive sounds of” possono essere utili anche a ricordarci che dobbiamo ribellarci a questa merda autoritaria che ci circonda e ci sta lentamente sopprimendo.

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