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Recensione : The Drunken Sailor File

The Stools, The Toeheads e Daddy’s Boy. La continuità di un suono, di un approccio, contro la natura liquida di un sistema che si plasma a seconda dei trend economici e statistici.

The Drunken Sailor File

Zitti tutti,
coltelli e catene sotto i banchi
prendete i vostri libri di testo
la Drunken Sailor da Londra ha da darvi una lezione.

•Gettate i vostri libri di testo fuori dalla finestra, che qui c’è più da vivere che da imparare

•Gettate ogni speranza, ‘o voi che leggete, giù nel cesso, poiché la speranza è pratica assai stronza e toglie ogni prospettiva e possibilità di scelta cui cimentarsi, qui, su terra ferma


•Gettate voi stessi fuori dalla finestra o giù nel cesso (la scelta qui, come da punto precedente, è solo vostra : una prima veridica prova sulla bontà delle vostre intenzioni di apprendimento)

E lasciatevi dunque inquinare, una volta atterrati o affondati, a quanto questi due dischi hanno da porvi sotto esame:



The Stools / The Toeheads “Watch It Die”-2022




Il rock n’roll sghembo di Supercharger, Brentwoods, Statics e Mummies riproposto sotto l’egida di formazioni come i Teengenerate, Loudmouths e Candy Snatchers: una furia cruenta e irruenta che non rinuncia ad una natura approssimativa e, nelle sue perfette imprecisioni, ad essere urticante nei suoi contorni così spigolosi e ruvidi;

questo sono gli Stools: un gruppo che ci ha già deliziati con tre singoli ed un album live che, in senso Punk ‘n’Roll di scuola Crime e Pagans, son già tre gioielli da infilare con forte convinzione nella propria discoteca e questo disco, se necessario, ne è la conferma.

“si, ok, ma comunque un po’ quella roba lì “

Si, ok, allora non ci siamo capiti: in un’epoca disastrata da un Vecchio che vuol sembrare Nuovo al semplice fine di coprire i suoi antichi fallimenti e avere la piena di libertà di ripeterli con la capziosità tipica dei vecchi, appunto, minestroni riscaldati, il tutto solo per nascondere sotto un velo di rigore posticcio le proprie incapacità ed incompetenze, perché non rispondere con quello che da sempre, e sottolineo sempre, dal suo primo irruento vagito fino ad oggi, ha sempre rappresentato la furia della nostra indignazione: lo sberleffo, la battuta che ferisce ed indigna, la pernacchia che rompe il clima di istituzionale serietà.

La continuità di un suono, di un approccio, contro la natura liquida di un sistema che si plasma a seconda dei trend economici e statistici.

Gli Stools da Detroit (mica scherzi) fanno questo: furia ed irruenza cui, la vena approssimativa ed artigianale, donano un che di felicemente irrisorio.

I Toeheads, pur mantenendosi ruvidi e rugginosi, danno al tutto un tono più romantico: quell’ineffabile consapevolezza che tutto ha un termine e, nonostante questo assunto, si continua imperterriti a percorrere strade fatte più d’ostacoli che di comodi interventi urbanistici;

la via è ostile ma non ci si arrende anche di fronte alla certezza che questa strada è a fondo chiuso.

La musica dei Toeheads vanta contorni armonici, sia nelle melodie vocali che in quelle strumentali, che rimandano alle riletture del rock’n’roll anni ’50 in chiave Punk Rock e Garage dei primi Misfits, rinunciando alle atmosfere lugubri e funeree del gruppo di Lodi e sostituendole con un’irruenza e una forza che li ricollega alla formazione con la quale condividono questo split. Uno split ordito con gusto, quindi, e con una coerenza di suono ed intenzione che lo segnala certamente come degno di tutto l’interesse possibile.

Forse avrete già gli scaffali pieni di roba così, ma ciò non vi deve togliere il gusto della curiosità e dell’interesse:

tutto quello che ha una storia, una solida base, ha anche un percorso in divenire per forza di cose; una tale credenziale non è riscontrabile, attualmente, nell’universo politico, lasciamo quindi che sia la musica ha darci dei motivi, delle ragioni e delle intenzioni. Non c’è niente di più stimolante.


Daddy’s Boy “Great News”, 2022





Non so se avete presente quel dato momento nella storia del Punk Hardcore americano anni ’80 in cui, stufi dei luoghi comuni che oramai andavano svilendo un genere, un manipolo di folli, poeti e screanzati si mise a rimescolare le carte in tavola e, riprendendone la furia e l’irruenza, usarono l’Hardcore come bersaglio per rimettere tutto in discussione:

Flipper e Black Flag gli fecero da base solida, i nomi erano No Trend, Drunks With Guns, Fang, Stickmen With Rayguns e Anti-Hardcore fu il nome che gli venne appioppato.

Una storia di destrutturazione, sincopi, rabbia, commistioni con l’inimmaginabile mondo degli Zappa e dei Captain Beefheart e la capacità di creare un ponte ideale tra gli anni ’80 e i ’90 per la musica Underground tutta.

Una storia che, facendo da ponte, forse è stata un po’ accatastata con gli anni e tristemente dimenticata, come purtroppo accade a tutti i fenomeni di transizione ma che oggi sta tornando prepotente, sotto l’egida di nuove formazioni come questi Daddy’s Boy, per rivendicare il suo posto nella storia:

un tassello necessario nella ricostruzione della mappa dell’Underground come movimento di massa.

Pezzi frenetici che si spezzano e si frantumano nel loro incedere risoluto e violento. Il Noise Rock che si sparpaglia lungo un tessuto di viva carne fatto di strappi, tagli e punti di sutura degni del migliore Frankenstein.

Una violenza che rinuncia all’impatto e che risiede nella dissonanza, elemento fondante del gruppo che ben si sposa con una voce femminile che rifiuta l’armonia e la melodia in favore della declamazione, dell’atonia, della narrazione senza punti né virgole , impersonando il ruolo della velocità a rotta di collo in un disco che, come già detto, rinuncia alla velocità nell’esecuzione ma ama alla follia la brevità, la sintesi che, nella sua freddezza, diventa un carnevale di colori tra il grigio, il nero, il blu livido ed il viola cadaverico.

Si viaggia ai ritmi dell’angoscia, dell’ansia, di una nevrosi generata da un esistente che più non ci somiglia.

Fieri eredi dei primi No Trend, i Daddy’s Boy riconciliano l’Anti-Hardcore con il movimento che gli fece da indubbio genitore e scelgono, in fase di produzione, un peso massimo: Steve Albini registra, lima e livella un disco che arriva a rivitalizzare un discorso che lui stesso aveva contribuito ad avviare e confermare: prima coi Big Black e i Rapemen e, negli anni ’90, con gli Shellac. Una garanzia che ci consegna un disco ben congeniato che, nelle sue assurdità sonore, distorsioni e dissonanze, pare un’opera di perfetto bilanciamento delle parti:

nulla è fuori posto, tutto stimola ad un ascolto attento, tutto pare compatto nonostante la volontà palese di ridursi a frammenti.

Da avere.




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