Ci sono momenti nella vita di ciascun individuo nei quali il destino sembra divertirsi a sovrapporre impegni, avvenimenti, scelte di vita, in un caleidoscopio di emozioni contrastanti, rassomiglianti per chi le vive sulle propria pelle ad uno spiacevole e non richiesto viaggio sulle montagne russe.
Un evento particolarmente importante, quale è per chi è appassionato di doom un concerto dei Saturnus, quando si va a collocare all’interno di una situazione come quella appena descritta, arriva sicuramente al momento giusto per ripulire la mente di pensieri sgradevoli e intrisi di negatività.
Le emozioni, si diceva, sono la chiave di volta per chi ama il doom, genere musicale per eccellenza capace di indurre al pianto lasciando in dote un pace interiore senza confronti, oltre ad essere, come brillantemente sottolineato da qualcuno, la forma d’arte per eccellenza che, pur avendo come argomento centrale la morte, è apprezzata solo da persone che amano spasmodicamente la vita.
Il circolo Colony è un bellissimo ed ampio locale, disperso nella periferia bresciana in mezzo a campi e capannoni industriali e, pur non essendo uno dei luoghi più a portata di mano del globo, si è rivelato una location adatta per un concerto che ha richiamato un buon numero di appassionati, il tutto ovviamente rapportato alla realtà ineluttabile di un genere di nicchia come il doom e, soprattutto, in confronto ai pochi intimi che assistettero qualche anno fa, in quel di Retorbido, alla precedente calata dei Saturnus sul suolo italico.
(ECHO)
Alle 20.30, con un certo ritardo, hanno fatto la loro comparsa sul palco gli (Echo), che qualcuno, evidentemente non conoscendoli, aveva sbrigativamente liquidato come band locale, di quelle buone soltanto per portare qualche amico in più ad infoltire il numero dei presenti. Eppure sarebbe bastato ascoltare qualche volta con un minimo di attenzione il loro splendido album di debutto Devoid, per rendersi conto del valore di questi ragazzi, capaci di proporre un doom dalle forti sfumature post metal, nel quale le linee melodiche sono sempre collocate in primo piano senza comprimerle all’interno di rumorismi o tecnicismi fini a se stessi. Nonostante lo status di opening act potesse far pensare il contrario, il fatto di giocare in casa ha fatto sì che la loro esibizione sia durata forse qualcosina in più del previsto, certo non un male, se consideriamo che i bresciani hanno sciorinato il meglio della loro produzione oltre a proporre un assaggio del prossimo full-length, fornendo così la sensazione che superare il livello già altissimo di Devoid non sia affatto un’utopia.
SHORES OF NULL
Degli Shores Of Null devo ammettere, in tutta onestà, di aver sentito in precedenza solo qualche brano, seguendo solo parzialmente i consigli accorati dei miei pusher musicali, cosa della quale mi sono pentito non poco.
Infatti, solo una persona afflitta da sordità e da un incurabile dabbenaggine può ignorare una band di questa levatura: i musicisti riunitisi in questa nuova e stimolante realtà musicale, provengono da diverse esperienze maturate in gruppi piuttosto conosciuti nei circuiti undeground, quali Zippo e Orange Man Theory, solo per citarne alcuni, e in questa loro avventura si lanciano in una forma di metal estremo che abbraccia con sorprendente competenza e freschezza tutti i generi, dal death al black, senza tralasciare ovviamente rallentamenti doom e sfumature post-metal. Con queste premesse l’ascolto dei Shores Of Null potrebbe risultare decisamente ostico in sede live, specie se non si conoscono a fondo i loro brani, e invece, dono concesso solo ai predestinati, la musica fluisce con una scorrevolezza tale da non provocare in alcun frangente né noia né stanchezza. Non sorprende più di tanto, così, la disinvoltura con la quale l’otttimo Davide Straccione passa da un range vocale all’altro e, ancor meno, il fatto che i nostri siano stati chiamati a far parte del roster di una metal label di culto come la Candlelight.
THE FORESHADOWING
Per i The Foreshadowing, il tour americano intrapreso nei primi mesi del 2013, ha costituito sicuramente una grande occasione per far conoscere la propria musica non solo al di fuori degli angusti confini nazionali ma anche rispetto a quelli ben più ampi e accoglienti dell’Europa. La possibilità di condividere il palco con band di grande nome ha consentito al gruppo romano di suonare di fronte a platee ben più vaste rispetto a quelle piuttosto striminzite che, purtroppo, sono una costante per gli eventi live legati al doom sul suolo italico. Qualche mese fa, in occasione del concerto di Romagnano di supporto ai Swallow The Sun, il gruppo non aveva convinto del tutto, complice forse una scaletta piuttosto opinabile che non aveva attinto a piene mani, come sarebbe stato lecito attendersi, dal loro ultimo magnifico album; sul palco del Colony, invece, i The Foreshadowing hanno diradato qualsiasi residuo dubbio sul loro valore assoluto non lesinando brani tratti da Second World, dimostrando una volta di più che definirli oggi come gli eredi più degni e più credibili dei Paradise Lost sia tutt’altro che un azzardo.
Infatti, pur prendendo spunto dai maestri albionici, la band guidata dal carismatico Marco Benevento si dimostra capace anche dal vivo di proporre un sound del tutto personale e quindi riconoscibile, nel quale l’impatto emotivo è perfettamente bilanciato dalla pesantezza dei riff .
DOOMRAISER
Con l’ingresso sul palco dei Doomraiser il clima cambia radicalmente, tanto da far sembrare d’essere stati risucchiati all’interno di un’infernale macchina del tempo: le differenze tra le due band romane, che spesso si sono trovate a condividere il palco, appaiono davvero profonde, tanto a livello di immagine che di sonorità.
Un contrasto che genera sensazioni solo piacevoli, visto che si passa, nell’arco di qualche decina di minuti, dal doom elegante e goticheggiante dei The Foreshadowing a quello grumoso, sporco e dagli aromi antichi dei Doomraiser. Anche in questo caso la scaletta è stata a mio avviso la migliore possibile, in quanto ha attinto a piene mani dal loro capolavoro Erasing The Rememberance, ridimensionando in parte le pulsioni psichedelico-progressive che ne animavano l’ultimo album finendo, in parte, con lo snaturare un sound che trova invece il proprio punto di forza in un impatto granitico ed essenziale.
Complici i due nuovi innesti alle chitarre, i doomsters capitolini appaiono oggi molto più professionali e coesi, pur senza perdere un’oncia della loro carica belluina e della genuinità che li ha sempre contraddistinti, rendendoli meritatamente una delle doom band più apprezzate non solo a livello nazionale.
Il loro è un sound lento ma non opprimente, i riff sono autentiche mazzate che si abbattono sulle teste ondeggianti degli spettatori, intrattenuti da un vocalist efficace e versatile come Nicola Rossi.
L’ennesima conferma da parte di una band capace di garantire, in qualsiasi situazione, un set coinvolgente come pochi altri.
SATURNUS
L’ingresso sul palco degli headliner avviene ad un orario oggettivamente buono solo per nottambuli incalliti, e questo, se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, è stata l’unica pecca della serata; per quanto le quattro band che si sono avvicendate fino al quel momento abbiano dato vita ad ottime prestazioni, dopo oltre quattro ore di doom un calo di attenzione (e di spettatori) è sempre dietro l’angolo. I Saturnus hanno atteso il loro turno con la tipica pazienza nordica e, dopo alcuni assestamenti ai suoni resisi necessari per far sì che l’evento si svolgesse senza la minima sbavatura, hanno intrapreso con la consueta maestria il loro cammino musicale intriso di malinconia .
Non sono molti i concerti ai quali si partecipa con il dichiarato intento di versare qualche lacrima e la commozione non tarda a manifestarsi quando vengono regalati all’audience brani dall’impatto emotivo dirompente quali Litany Of Rain, WindTorn, I Love Thee e, ovviamente, I Long, il capolavoro in grado di indurre al pianto grandi e piccini e capace di accomunare in un ascolto molto vicino alla trance truci metallari, giovani virgulti e attempati signori di mezz’età.
La scaletta presentata dai danesi ha attinto in maniera equilibrata da tutta la loro produzione, tralasciando purtroppo qualche brano meraviglioso come Rain Wash Me o Mourning Sun, una circostanza pressochè inevitabile quando un gruppo ha al proprio attivo un numero così elevato di perle da elargire al pubblico.
A differenza delle altre band, nelle quali come da copione è il front-man l’elemento maggiormente in evidenza, nei maestri danesi lo storico singer Thomas Jensen, con il suo caratteristico growl, si mette al servizio di un superlativo Rune Stiassny, chitarrista dal tocco unico e capace realmente di veicolare emozioni a profusione, sfoderando a getto continuo linee melodiche indimenticabili e ponendosi all’antitesi dell’arido virtuosismo strumentale di molti dei suoi colleghi.
Momenti intensi come quelli che i Saturnus ci elargiscono in ogni brano della loro produzione sono la perfetta trasposizione musicale della poesia più pura e malinconica, in grado di indurre nell’ascoltatore un effetto catartico e che, al termine dell’esibizione, lascia spazio esclusivamente all’incanto che segue la visione e l’ascolto di simili performance.
L’essere un fan dei Saturnus è, di fatto, un segno distintivo, capace di fornire il senso di appartenenza ad una ristretta comunità di persone sparpagliate sul globo terrestre, con le quali si condividono necessariamente un’innata sensibilità e l’amore per la bellezza, sia pure drappeggiata di veli oscuri.
Nell’introdurre questo report ho parlato di emozioni e di come queste vadano ad intrecciarsi con la quotidianità andando a fissare in maniera indelebile tutti quei momenti, fatti di gioia o di disperazione, che resteranno scolpiti nella nostra memoria fino alla fine dei nostri giorni.
Ma non ci può essere alcuna emozione se ogni individuo, nell’accostarsi alle sue molteplici attività, non sia mosso anche da un’autentica passione, come quella che ha spinto Alex e Vanessa, con il prezioso supporto di Simone e Alberto, a dar vita ad una realtà unica come la House Of Ashes Prod., label che in poco più di un anno di attività ha già regalato agli appassionati di metal del nord-ovest una serie di eventi musicali dal livello qualitativo straordinario, oltre ad aver consentito ai doomsters di razza di godersi dal vivo, a pochi mesi di distanza, due band storiche come Swallow The Sun e Saturnus.
Quella stessa passione che consente di superare ostacoli per molti insormontabili, diventando prioritaria rispetto a qualsiasi logica di tipo commerciale; in un paese che languisce soffocato da una crisi economica capace di amplificare nelle persone rancore ed autocommiserazione, sapere che c’è ancora qualcuno disposto a gettare il cuore oltre l’ostacolo pur di realizzare i propri sogni, è proprio ciò che serve per provare a guardare con fiducia al futuro ed addormentarsi pensando che, nonostante le difficoltà, i dubbi e le paure, il giorno successivo, anche se non sarà necessariamente migliore, varrà sempre la pena di viverlo con tutta l’intensità possibile.
Insomma, questa data verrà ricordata molto a lungo da tutti coloro che vi hanno partecipato, senza commettere però l’errore di ritenerlo un evento in qualche modo irripetibile: la sensazione (e forse anche qualcosa in più) è che le sorprese che ci hanno riservato gli amici della House Of Ashes siano ben lungi dall’essere finite …
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