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Recensione : Quand’ero bambino di Jacques Prévert

In questo libro del 1972, Prévert racconta la propria infanzia, il mondo visto da un bambino; gli affetti e le immagini della vita familiare si alternano allo stupore per l’ambiente esterno: la scoperta di Parigi, le vacanze in Bretagna, i libri d’avventura e lo sguardo un po’ smarrito sulla società.

“Quand’ero bambino” di Jacques Prévert, edito da Guanda

Quand’ero bambino di Jacques Prévert

In questo libro del 1972, Prévert racconta la propria infanzia, il mondo visto da un bambino; gli affetti e le immagini della vita familiare si alternano allo stupore per l’ambiente esterno: la scoperta di Parigi, le vacanze in Bretagna, i libri d’avventura e lo sguardo un po’ smarrito sulla società.

Benché si sviluppi fra vicende di dolore e povertà, questa breve e intensa autobiografia d’infanzia riesce a far sorridere.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • Urlavano “Morte agli ebrei” o agli “youpins” (giudei, nda), come li chiamavano, e sentivo le loro canzoni:

 

Scacciamo i Giudei

E i Rossi Plebei

Scacciamo lontano da noi

Questa razza di furfanti…

 

Se lo interrogavo, mio padre scuoteva la testa e non aveva l’aria di approvare: “Gli ebrei, capisci…” Ma si dice sempre “capisci” ai bambini che non capiscono. E proseguiva: “Sarebbe come, non so, come dire, i bretoni, per esempio: ve ne sono di buoni e di cattivi e, in massima parte, sono buoni, e i bretoni sono una razza, perfino una bella razza. E per gli ebrei è forse lo stesso, più o meno (…)”.

  • (…) non ero molto contento quando i miei nonni mi tenevano a Nantes con loro, anche soltanto per un giorno o due. Ero sicuro che, se capitava di sabato, il giorno dopo mi avrebbero portato alla messa.
  • E Nantes era sempre in fermento. Una volta, dalle finestre del nonno, si videro delle persone che sfilavano con delle bandiere diverse dalle altre; ma come a Neuilly, si scontravano con gli agenti, con i gendarmi, e cantavano canzoni violente e tristi, anche queste diverse dalle altre. Tutto ciò mi spaventava un poco, soprattutto perché mio nonno, rosso per la rabbia, il fiatone e l’indignazione, raccontava certe cose per nulla rassicuranti, gli annegamenti di Nantes. Un pirata di nome Carrier, da un barcone bucato a bella posta, gettava tutti i gentiluomini nella Loira. “E se si lascia correre, si ricomincia daccapo!” gridava mio nonno. “Con tutto questo, diventa proprio carina la società!” Sapevo bene che cosa voleva dire “tutto questo”: gli operai dei cantieri di Saint-Nazaire, le donne “a testa scoperta”, le incendiarie (donne che durante la Comune di Parigi appiccavano incendi, nda), i voltagabbana e i bellimbusti, le cocotte, le pescivendole, gli anarchici, i marinai in libera uscita; e a Nantes, come a Parigi, “tutto questo” andava messo nel medesimo paniere.
  • (…) una volta mio padre ci mostrò, dalla portiera, il paesino d’Ancenis. “Guarda Ancenis… e, se non l’hai visto, non hai perso nulla. Nel suo piccolo seminario ho fatto i miei studi, è il posto dove ho sofferto di più nella mia vita. Erano odiosi e crudeli con i bambini che non li amavano.” “Glielo dicevi?” “Non valeva la pena, lo vedevano ed era logico: facevano soffrire tranquillamente quelli che non li potevano soffrire. Ora, quando mi sentirai gridare per qualche incubo, saprai cosa c’è sotto. Tua madre, del resto, lo sa da molto tempo e mi sveglia subito, perché anche lei…” “Oh, io; non era la stessa cosa”, diceva mia madre guardando il paesaggio. “Certo non dimentico, ma questo non mi provoca brutti sogni. Stavo dalle suore, donne che ignoravano tutto della vita. Quando non eravamo buone, andavamo in un angolo con un gambo di carciofo in bocca per capire meglio l’amarezza della colpa. ‘E’ amaro?’ ‘Sì, sorella.’ E ci si doveva mettere in ginocchio e tracciare per terra una croce con la lingua.”
  • (…) erano sempre le strade dei quartieri più poveri ad avere i nomi più graziosi: rue de la Chine, rue du Chat-qui-Peche, rue aux Ours, rue de Soleil, rue du Roi-Doré, senza dimenticare rue de Nantes e rue des Fillettes, e tante altre ancora. Erano sicuramente i poveri che li avevano trovati, questi nomi, per abbellire le cose. (…) I quartieri non erano mai simili, anche se i poveri si somigliavano.
  • Di fronte alla scuola, c’era un negozio di libri usati dove si trovavano un sacco di cose: Carabine d’oro, Morgan il pirata, Nat Pinkerton, Texas Jack e soprattutto Toro seduto che mi piaceva molto perché era indiano e perché gli Indiani, come i boeri, erano quelli che avevano ragione, come i negri nella Capanna dello zio Tom.

 

Cos’altro aggiungere? Alla domanda “Puoi darmi una definizione di libertà riferita alla tua persona?”, Camus ha risposto: “L’ho scritto da qualche parte: mi piacerebbe non avere nulla, non essere legato a nulla; addirittura ho sognato spesso quanto sarebbe bello morire in una camera d’albergo.

Non mi sono mai piaciute le sicurezze borghesi, le ossessioni d’identità – in fondo qualcosa di assai comodo e consolante – né mi piacciono gli idoli a cui la modernità si prostra. Mi piace Prévert quando scrive:

“Il progresso, troppo robot per essere vero.” Ecco, condivido questa idea: la modernità tecnologica è troppo meccanica per essere vera, e a me piace la realtà tangibile, piacciono gli uomini calati nella vita di ogni giorno, le persone che lottano per l’esistenza concreta. Un vero progresso aiuterebbe gli uomini ad avere cose concrete a essere veri uomini, non a consolarsi con una vita robotica.”

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