Sarà che il blues e il punk, due generi/movimenti/universi differenti tra loro per contesto storico-culturale e ambientale, ma in fondo accomunati dalla stessa urgenza espressiva e concettuale, sono opposti che si attraggono per via della stessa esigenza di suonare una musica (apparentemente) semplice per far sentire la propria voce al mondo e veicolare istanze ed emozioni, usando un linguaggio “urbano”, poco forbito o comunque di facile comprensione, affinché arrivi a più gente possibile il racconto nudo e crudo della vita di tutti i giorni: gioie, paure, amore, meraviglia, magia, vittorie, sconfitte, delusioni e vendette sentimentali, sfoghi, ingiustizie, soprusi, odio, disgusto, noia, rabbia verso la società e il sistema borghese/capitalista di sfruttamento della povera gente, che prescinde dal colore della pelle (gli afroamericani deportati e costretti a lavorare tutto il giorno nei campi di cotone, la working class inglese e, in generale, dell’uomo bianco disoccupata o salariata ma condannata a sopravvivere facendo lavori odiati, precari e sottopagati) le difficoltà a tirare avanti e la voglia di rivalsa sociale. Due background distinti, ma identici problemi. E quando questi due mondi si incontrano-scontrano e provano a dialogare, fondersi e compenetrarsi l’uno nell’altro, quasi sempre il risultato di questa commistione dal basso dà vita a una musica infuocata, ruspante, vivace e verace. Non stiamo parlando, logicamente, di puristi della tecnica alla Eric Clapton o altri mostri sacri della popular music che hanno fatto le loro fortune ripetendo all’infinito gli stessi stilemi di un blues/rock/pop che si è “appropriato” della black music (dalla “British invasion” in poi) e dagli anni Sessanta in poi ne ha riproposto sempre una versione “sbiancata” e ingessata di esso. No, ci riferiamo invece al melting pot tra blues apocalittico e punk rock incendiario (o anche garage rock/punk di Sixties ed Eighties) di cui sono stati fautori band e artisti straordinari e indimenticati come gli Stooges, i Gun Club, Jon Spencer nelle sue varie incarnazioni, Reverend Beat-Man.
Tutte esperienze di cui la one girl band vicentina Elisa De Munari, in arte Elli De Mon, ha fatto tesoro (suonando in giro per l’Italia ed Europa, a volte aprendo, tra gli altri, anche per i live di Jon Spencer e del Reverendo) e ha riproposto nel suo ritorno discografico, con l’album “Pagan Blues“, da poco pubblicato sulla benemerita label pisana Area Pirata Records, ri-miscelando l’energia e l’attitudine del rock ‘n’ roll con la tradizione sciamanica della psichedelia indiana e del blues ancestrale di Bessie Smith, Fred McDowell e Son House.
Il settimo Lp ufficiale di Elli, talentuosa donna/realtà ormai consolidata nel panorama dell’underground indipendente italiano ed europeo, mostra l’artista sempre sul pezzo, migliorata tecnicamente e nello stile, perfettamente capace di padroneggiare con disinvoltura tutti gli onori e gli oneri che spettano a un/una one man/woman group, ossia cantare e suonare tutto da soli/e: grancassa, chitarre, rullante, sonagli e spirito di sacrificio. Con il blues primordiale a fare da collante e bussola tra progetti passati, presenti e futuri.
Il full length arriva, infatti, a due anni dal progetto “Countin’ The Blues“, tribute album e libro incentrato sulla figura delle pionieristiche e coraggiose blueswomen afroamericane degli anni Venti del Novecento (ai quali hanno fatto seguito la graphic novel “La donna serpente“, e il libro di racconti “Muder Ballads“) e “blues” è ancora la parola chiave, quella del titolo del nuovo long playing, ma è anche “pagano” perché accoglie le molteplicità e coltiva il dubbio, in provocatoria opposizione verso le scuole pensiero che ingabbiano il blues in un oggetto devozionale, da museo (come detto prima riguardo a Eric Clapton e affini) e in discorsi puristi su cosa sia “vero blues” o meno. Ma il “paganesimo”, non avendo la pretesa di essere un’entità assolutistica, mischia popoli e culture, non si nutre di certezze granitiche “monoteistiche”, è un camminare domandando, e questo cammino musicale (che va avanti da oltre un decennio) non fa avere a Elli la verità in tasca, ma la porta a studiare tradizioni musicali extraeuropee, viaggiare e indagare in luoghi lontani (fisici e spirituali) a volte anche scomodi, ma dal conflitto tra luce e oscurità ci si arricchisce nell’anima e si gettano ponti oltre gli integralismi.
Un percorso “pagano” aspro che si snoda lungo nove tappe di dannazione e inquietudine, a iniziare dal costante senso di minaccia di “The Fall“, che sembra sempre in procinto di deflagrare da un momento all’altro, al fragore chitarristico cesellato di “I can see you“, passando per il torrido trip sotto effetto del peyote fatto in compagnia del fantasma di Jeffrey Lee Pierce in “Desert Song” e in “Catfish Blues“, ammaliante e letale come l’abbraccio mortale di un black mamba che sbuca dalle stesse savane africane che ha partorito i progenitori del deep blues. “Star” si muove come un canto beneaugurante per una nuova e generosa Saturnalia che dia abbondanza e sfami tutto il creato, mentre i ticchettii di “Ticking” innescano esplosioni garage rock che avrebbero fatto felici i White Stripes, ma anche Pj Harvey (altra beniamina della polistrumentista veneta) sarebbe fiera delle folate alternative della title track e di un brano come “Sirens’ Call” che sembrano ispirati proprio a Polly (e alla collega “one whoaman band” Molly Gene) anche se insaporiti da spezie psych indianeggianti, prima di lasciare la scena alla conclusiva “Troubled“, sorta di ninna nanna al veleno sussurrata dai genitori alla prole per metterla al letto, coricandosi poi con la ripromessa di ringhiarla anche in faccia ai propri schiavisti il giorno successivo, ritornando a spaccarsi la schiena ai lavori forzati nelle piantagioni di tabacco.
“Pagan Blues” è un album senza cali di tensione e senza sbavature né troppi fronzoli, va efficacemente dritto al punto, a buon diritto si candida a essere uno degli album preferiti del 2023 per chi vi scrive, e un buon pretendente a un posto nella classfica dei migliori dischi di quest’anno.
TRACKLIST
1. The Fall
2. I Can See You
3. Desert Song
4. Catfsh Blues
5. Star
6. Ticking
7. Pagan Blues
8. Sirens’ Call
9. Troubled
No Comments