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Confessioni di una maschera “Donne che odiano le donne”

Un’analisi amara sulle ultime elezioni in Toscana e sul clima d’odio esploso online contro Antonella Bundu. Non conta l’esito politico, ma il degrado culturale e sociale che la rivoluzione digitale ha messo a nudo: razzismo, sessismo, assenza di pensiero critico.

Dopo l’eternità di un’estate terribile [cit.] che non sembrava voler finire mai torniamo al quotidiano. In particolare a quello del Granducato . Le recenti elezioni regionali qui nell’ex Etruria ci forniscono un sacco di spunti di riflessione. Tra i tanti scegliamo quelli legati alla nostra battaglia contro la digitalizzazione. Una lotta contro quello che consideriamo il male assoluto dei nostri giorni, e che non abbiamo alcuna intenzione di abbandonare.

Al netto del fatto che non partecipiamo alle tornate elettorali non riconoscendoci non solo nell’autorità dello stato (scritto volutamente minuscolo), ma ancor meno in quella che chiamano democrazia rappresentativa. E che, da quanto è stato introdotto il sistema maggioritario che esclude chiunque la pensi in modo diverso rispetto ai due lati della stessa medaglia, ci allontana ulteriormente da ogni contesa politica istituzionale, abbiamo atteso la fine delle consultazioni, per provare a fare un ragionamento che non fosse condizionato dagli esiti, peraltro scontati, emersi dalle urne.

Quello di cui vogliamo parlare oggi infatti ruota intorno alla figura della “terza incomoda”, ovvero Antonella Bundu, la probabile (anche se non ufficializzata come tale) reale trionfatrice delle elezioni. Sgombriamo però subito il campo da ogni tipo di equivoco. Non siamo qui per tessere le sue lodi, anche se le riconosciamo grande coraggio e onestà intellettuale. Non ci interessa salire a bordo del suo carro. Preferiamo proseguire da soli, a piedi.

Siamo qui invece per raccontare tutto quello che ha preceduto le elezioni, e che l’ha purtroppo vista come involontaria protagonista, nonché parte lesa.

Contestualizziamo il tutto. Siamo in Toscana, Italia. Abbiamo una donna di origini africane che si candida alla Presidenza della Regione. Un atto che rasenta il vilipendio stando a quanto abbiamo tristemente modo di leggere online. Un qualcosa di inaccettabile, secondo una grandissima parte degli internauti. Un qualcosa di assolutamente normale, perfettamente contestualizzabile con il mondo moderno, retto dalle “contaminazioni” in ogni campo, a partire dalle Arti.

Se ci fermiamo agli insulti provenienti da CPI, su cui c’è ben poco da dire, e che si commentano da soli, vista la provenienza degli attacchi (che in parte ci stanno, visto che si tratta di un modo di agire adolescenziale che alla fine è l’unico a loro disposizione), non andiamo da nessuna parte. Quello che invece abbiamo trovato disgustoso, e inaccettabile, è quello che che ha visto come protagoniste e protagonisti donne e uomini al di fuori della galassia di CPI, e di tutte le inutili microformazioni ad essa legate in modo più o meno evidente.

Sono le reazioni della “gente comune”, quella che dovrebbe avere una visione delle cose non condizionata dagli interessi di partito, quelle che, ancora una volta, ci hanno portato a pensare che internet sia un esperimento da considerare fallito. Un esperimento che ha mostrato il vero volto delle persone qualunque, quelle che vediamo ogni giorno per strada, al lavoro, al supermercato. Persone a cui parla la politica attuale, quella che grida alla pancia della gente, quella che tocca argomenti che esulano dalla cultura, su cui sono state costruite le campagne elettorali degli ultimi anni.

Si tratta di una fetta di paese che ha un’età in cui l’elasticità mentale si sta sfaldando. Un elettorato in crescita esaltato sul culto della difesa di una nazione (scritto volutamente minuscolo) di cui dovremmo vergognarci. Una parte di Italia che non ha avuto un’adeguata istruzione, e che non perde occasione di dimostrarlo, soprattutto in quella che considerano “la democrazia della rete”.

Sarebbe facile prendersela con queste persone, ma non è questa la nostra intenzione. Crediamo infatti che non sia colpa loro se non sono abbastanza intelligenti da capire come muoversi nei vari contesti, che cosa sia lecito dire o non dire, che cosa significhi esattamente ciò che hanno letto, ma soprattutto che cosa comporta quello che hanno scritto (molto spesso in un italiano più che balbettante). Ma soprattutto che cosa sia davvero internet, capendone il potenziale, i limiti e i pericoli.

Preferiamo quindi allargare il discorso ad un’analisi che non verta sui singoli e sui loro gesti (che comunque restano l’esempio migliore da cui trarre ispirazione), ma che guardi alle idee, la cui vera assenza è il grande problema dei nostri giorni. La cultura, o come detto, la sua assenza, ha portato le persone a ragionare sui singoli, abbassando il livello delle analisi ad uno stadio inaccettabile fondato su di un assurdo contraltare polarizzato in cui non esiste nulla al di fuori del bianco e del nero, in cui l’incapacità di comprendere che le differenze, le sfumature, le imprevedibilità è un triste dato di fatto che ci fornisce la misura delle cose, e fotografa perfettamente il degrado. Mentre dovrebbe essere il pilastro su cui costruire la nostra coscienza critica.

Se restiamo su quelli che consideriamo dei dati di fatto, non possiamo non sottolineare come la rete abbia contribuito a sdoganare un’autentica fogna in cui personaggi come quelli che hanno ricoperto di insulti vergognosi la Bundu si muovono alla perfezione. Si tratta di figure che hanno finalmente trovato la propria identità attraverso una valvola di sfogo che non erano in grado di individuare altrove. Uno sfogo che la vita vera, non quella artificiale dei social network, ha sempre precluso loro. Uno sfogo che ha sporcato la Bundu con un’autentica cascata di odio e di violenza (sia razziale che di genere) che non mi sarei mai aspettato in una terra così ricca di cultura come quella del Granducato.

Ma la cosa che più mi ha fatto male è stato leggere i commenti delle donne, che in quanto ad aggressività e disprezzo non avevano nulla da invidiare a quelli degli uomini. Donne che, anziché sostenere una loro pari, hanno riversato su di lei un fiume di improperi inaccettabili, da donna a donna. Soprattutto legati alla parte africana della famiglia della Bundu, che, è bene ricordarlo, è cittadina italiana, nata a Firenze da madre italiana e padre sierraleonese. Donne che odiano le donne verrebbe da dire parafrasando un famoso e fortunato romanzo di un autore scandinavo prematuramente scomparso.

Sarebbe per certi versi doveroso (e forse liberatorio) riproporre qui nomi e cognomi degli autori dei commenti, ma non siamo dell’idea che la gogna mediatica sia un qualcosa di terapeutico. Si tratta comunque di epiteti vomitevoli che rappresentano un linguaggio che ai nostri tempi si sarebbe detto “da bar”, in cui alla Bundu viene rimproverato di tutto. Insulti che esulano dalle proposte politiche della Bundu (mentre invece su quel post solo di quello avrebbero dovuto discutere) ma si fermano al colore della pelle, e al fatto che si tratti di una donna. Non che gli uomini siano stati da meno, sia chiaro, ma quando leggiamo certe cose scritte da una donna il dolore che proviamo è doppio. Mentre loro, i maschietti, si sono limitati, quasi sempre, a sbizzarrirsi su tematiche sessuali, le donne non hanno perso tempo, invitandola a tornarsene in Africa (spesso sbagliando il paese di origine del padre, Congo, Burundi, ecc.), invocando fantomatici complotti dei cinesi per farla eleggere (?), insinuando dietro sua candidatura l’ombra di un’invasione islamica (?), senza dimenticare improperi come “feccia”, “schifo”, o chi tra le gentili signore toscane la invitava a tornare al suo paese con lo stesso barcone da cui era sbarcata, chi la individuava come un rifiuto riportato dalla piena del fiume e chi nello stesso fiume voleva buttarcela. Tutte paladine a difesa di una città (in questo caso Prato, ma poco importa, gli idioti non hanno un legame con la provenienza geografica) che rischia di perdere la sua italianità.

Ci sarebbe quasi da ridere, se non fosse tutto tragicamente vero.

Al netto del fatto che nelle pagine dei personaggi pubblici e in questo caso dei politici, si trova sempre il peggio, e che la mia non vuole essere un’invettiva diretta alla città in questione (dato che, come detto poco sopra, le città son tutte uguali, i deficienti sono ovunque, e paiono in grado di riprodursi, nonostante la famigerata crescita zero), usiamo questo episodio per tornare a rimarcare la nostra incapacità gestionale della rivoluzione digitale. Abbiamo invocato l’avvento rivoluzionario per anni, inseguendo utopie e sogni proibiti. Nel momento in cui la rivoluzione è arrivata davvero non siamo stati in grado di capire più niente.

Viviamo di meme.

Questo è quello che abbiamo saputo cogliere dalla rete. Lo slogan, il commento facile e sboccato, lo sdoganamento dell’ignoranza culturale come rivendicazione di una rivalsa sociale che non ha ragione di esistere. Un tempo al bar se facevi certi commenti ti prendevano a calci in culo fino alla porta e ti davano il foglio di via vita natural durante. Ora il bar è la rete, dove tutti, indipendentemente dal fatto che possano o meno essere ubriachi, si esprimono come possono (spesso malissimo). La vita è diventata un bipolarismo estremizzato, in cui chi non la pensa come noi è il nemico. Un bar in cui a nessuno viene in mente che forse di tutto quello che dicono gli altri, qualcosa che possiamo fare nostro, o su cui possiamo pensare di ragionare ci sia. E che magari, discuterne insieme potrebbe portare a qualcosa di utile e di concreto.

La rivoluzione digitale ci ha seppellito in un continuo martellare di contenuti a cui non siamo stati in grado di reagire nel modo dovuto, discriminando cioè la merda (tanta) che avevamo davanti agli occhi, dalle cose interessanti. Ovviamente la causa è sempre la stessa. Manca una base culturale che possa permettere di fare questo tipo di ragionamento. Ma manca anche la voglia di mettersi in gioco e di volerlo fare. È più comodo star lì e ricevere tutto passivamente, senza pensare a quello che stiamo leggendo o vedendo. Il dubbio non fa più parte delle nostre esistenze.

Si è detto che il mondo digitale si è polarizzato. Dentro o fuori. Chi sta sulla porta viene portato in piazza e linciato pubblicamente. La gogna è diventata la legge di internet. Siamo tornati al medioevo. È ripartita la caccia alle streghe. Quella che pensavamo essere un’oasi di conoscenza, che ha abbattuto le barriere spazio temporali è in realtà un virus che ci ha corroso da dentro, riprogrammando il nostro pensiero, riportandolo ad un livello di elementarità quasi religiosa, integralista. Non sappiamo se si tratti di un esperimento di massa, ma a volte pensiamo che qualcosa di vero ci possa essere, e che se così è, siamo i candidati ideali per portarlo avanti.

Credevamo che i nativi digitali fossero i più fragili, quelli che meno potessero essere in grado di reggere l’impatto con la rete, inglobati e fagocitati dagli smartphone sin dalla prima infanzia, e invece ci dobbiamo ricredere. Siamo noi, i loro cattivi maestri, quelli che sono messi peggio. Loro sono sicuramente più manipolabili, rispondo infatti affermativamente ad ogni nuovo trend della rete, in modo quasi automatico, senza stare a pensare troppo. Per loro questa è la “normalità”.

Peggio stiamo noi adulti, che ci siamo ritrovati in un contesto a cui non eravamo pronti, e che non abbiamo saputo capire. Un contesto in cui l’anagrafe non può, e non deve essere una scusa. È emersa tutta l’ignoranza di un paese che – tornando all’esempio della Bundu di cui sopra – si scoperto razzista senza esserlo mai stato convintamente. Il che è ancora peggio di quei dementi di CPI, che razzisti lo sono per scelta, ma senza sapere il perché. In un paese dove i cittadini sono normalmente dotati di intelligenza la Bundu sarebbe stata vista (e trattata) solo come un candidato politico (eventualmente avverso) e non come un nemico in quanto “diverso”, e, conseguentemente, pericoloso per il micromondo in cui viviamo al cospetto di sua maestà lo smartphone.

Non ci sono purtroppo segni che la malattia sia in fase di remissione (auspicare alla guarigione sarebbe troppo, ci accontenteremmo anche solo della scomparsa dei sintomi), per cui non sappiamo proprio come provare a lenire il dolore che ci sta dilaniando. A volte vorremmo davvero vivere senza la necessità di porci dei quesiti, ma, evidentemente, siamo nati per soffrire.

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