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Recensione : BLACK GRAPE – ORANGE HEAD

Chi l’ha detto che tutte le droghe fanno male? A giudicare dalla bontà del nuovo album dei Black Grape, “Orange Head“, non si direbbe.

All’inizio di quest’anno, infatti, la band-supergruppo formata dal frontman Shaun Ryder (e che agli inizi vedeva in formazione anche Bez, altro ex Happy Mondays) e dall’artista hip hop Kermit ha pubblicato il suo quarto lavoro sulla lunga distanza (a sette anni dal precedente “Pop Voodoo“) in tre decenni di (sballato) percorso da combriccola di adorabili debosciati strafatti, tra scioglimenti e reunion.

Come da “tradizione” baggy, e con uno spirito festaiolo che si riallaccia ai giorni migliori dell’universo MADchester (un lungo e allucinato happening indie-dance psichedelico, più che una scena musicale vera e propria) questo disco sprizza anni Novanta da tutti i solchi, colorato da un sound in cui, come sempre, convergono e si mischiano acid house, hip hop, rock ‘n’ roll, dance, funk e soul in un’orgia psicotropa che, per un’oretta abbondante, sembra riuscire a far catapultare l’ascoltatore – corpo e anima (e paradisi artificiali annessi, anche se oggi i nostri si sono ripuliti e rimessi in riga) – nell’atmosfera di un concerto all’Hacienda mancuniana di fine Eighties/inizio Nineties.

Ryder e Kermit dimostrano di essere ancora in discreta forma e ogni brano del full length (registrato in Spagna e prodotto e mixato in maniera impeccabile da Youth, che ha anche suonato chitarra, basso e synth) è un potenziale banger da dancefloor: tra la slow techno rappata dell’apripista “Dirt“, le stramberie funk di “Pimp wars“, “Button eyes” (quest’ultima con fragranze latino-caraibiche) di “Quincy” e “Losers” (che suonano quasi come outtakes degli Happy Mondays), lo spaghetti-electro-western di “In the ground” (il cui testo amaro, e pieno di riflessioni sulla propria vita, è dedicato da Shaun Ryder al fratello Paul, ex membro degli Happy Mondays, deceduto due anni fa) l’acid house da rave party di “Panda” (in cui Ryder dice beffardamente che “we’re getting old like The Rolling Stones!”) il riuscito e trascinante big beat di “Milk” (forse il momento migliore dell’album, una dance song che punta tutto sulla pienezza del sound e su una formula che ha fatto le fortune, tra gli altri, dei Chemical Brothers) riletture del Peter Gunn theme (in “Self harm“) il trip hop “westernato” dubbato à la Massive Attack (in “Sex on the beach“) e le ottime bonus tracks (“Limelight“, la dark trip hop love song sui generisPart of everything” e la lisergica, Underworldiana killer tune da loop notturno “Liquid sunshine“) il trip è assicurato. Ryder sa essere ancora credibile nel ruolo del raw from the suburbs, coatto ma a suo modo saggio perché consapevole della sua condizione di classe, con un approccio street che fa ancora breccia nella cultura popolare britannica e riesce a parlare e arrivare ai giovani e, in generale, a tutti quelli che si riconoscono in un’attitudine stradaiola e working class: non a caso un certo Tony Wilson lo elevò al rango di poeta di pari calibro di W.B. Yeats!

Orange head” si conquista, senza dubbio, un posto di rilievo tra le sorprese e i dischi più stravaganti e divertenti del 2024. Ryder e Kermit, nonostante tutte le loro vicissitudini, sono ancora vivi e sul pezzo, e già questa è una notizia da salutare con gioia. Still twisting melons, maaan!

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