Terzo album per i Big Tree, segue l’ep Home(here) del 2010 e l’omonimo Big Tree del 2009,
I cinque componenti del gruppo si sono conosciuti durante le lezioni del programma di musica Jazz del Sarh Lawrence College, un college progressista di N.Y. conosciuto per essere all’avanguardia nell’approccio didattico da parte degli studenti che vengono messi in condizione, seguendo un corso di studi base, di sviluppare e definire un proprio percorso accademico secondo i propri interessi culturali (…proprio come qui da noi…). Studiando le sofisticate alchimie delle varie correnti del jazz questi cinque ragazzi imparano sostanzialmente a reggere il whiskey; ogni notte si soffermavano a provare nella sala adibita fino a che la sicurezza non li cacciava fuori e dopo continuavano fino all’alba ascoltando dischi in un dormitorio fumoso dove coltivavano le loro idee musicali. In una di queste notti Kayla porta alcune proprie composizioni ed i cinque cominciano ad improvvisare musica sul testo: così in un battito di ciglia il gruppo è formato. Dopo il diploma ognuno sembra prendere la propria strada ma di lì a poco i Big Tree si riuniscono , con un nuovo chitarrista ed un arrangiatore.
L’attacco del primo brano, This Fall, è quieto, ricorda alcune tracce della ECM Records, Kayla Mcintyre dimostra da subito influenze da jazz-singer quali Ella Fitzgerald, Norah Jones (figlia di Ravi Shankar…). Il brano si svolge in un crescendo vocale molto riuscito sul quale ricama una melodia di chitarra non invadente ma presente e molto espressiva per l’economia della canzone; sul finale si affacciano tromba e trombone. Un inizio molto efficace dal punto di vista dell’espressività, prima minimalista, poi una esplosione di suoni e voci sempre in armonia tra loro.
In Augury la chitarra accompagna le splendide voci di Kayla ed Anna Ghezzi, corista, che gorgheggiano come usignoli. Più incalzante la sezione ritmica di nuovo in un crescendo; si nota un utilizzo di scale musicali più complesse, dimostrando di aver studiato bene la lezione Davisiana del periodo Blue Note.
Seattle Bound vuole essere più contemporanea, parla dell’amore e delle sue privazioni in contesti sociali che stonano con la frenesia della vita della metropoli, con la voce che ricorda le introspezioni di Bjork interpretati alla maniera della Jones-Shankar; più protagonista qui il riff di chitarra e la ritmica; una tromba ne accompagna solennemente il crescendo intrecciandosi con i vocalizzi delle sempre più convincenti anna e Kayla.
This New Year. Echi di giorni ormai passati evocati dall’atmosfera vinilea dove un piano molto simile a quello di un brano dei Supertramp introduce la parte vocale che cresce in una bella e calibrata ampiezza timbrica, mantenendo un’intonazione insieme vellutata e cristallina, al di sopra di un tecnicissimo e melancolico rumoreggiare di chitarra. Atmosfere alla Donald Fagen, anche se manca un po’ a tutti l’ottimismo contagioso di I.G.Y. sfumato negli anni ’90. Sembra tutto sfasato in questo mondo, ma fondamentalmente si celebrano i valori che contano: “hai dimenticato di essere felice, ma ho imparato a giocare. I tuo cuore e freddo e le mie dita calde. Le loro bocche sorridono, la tua porta è chiusa”… “ogni cosa era così facile. Ora dannatamente difficile. Ho provato di tutto”.
In Open Window la voce si fa decisamente jazz nella cadenza e nella metrica leggermente sincopate dell’attacco, accompagnata da note di chitarra distorta in un leggero feed mai esagerato, molto dosato. Mi ricorda un po’ i Galliano di “The Plot Thikens” nella costruzione vocale e melodica. La lirica è la storia di piccoli gesti fatti in una storia d’amore che finisce, la cui tragicità è mitigata dalla dolcezza della visione del tempo che passa e delle stagioni che si susseguono nell’auspicio che tutto possa rinascere.
In Storm King alla voce di Kayla si affiancano vocalizzi maschili, dal tono molto intimistico, come trovarsi in quel rilassato dormiveglia del mattino in una domenica di riposo. Poi d’un tratto un pianoforte introduce il corpus della lirica e di un coro molto incisivo: l’abbandono della casa natìa senza nulla che possa proteggere dal clima ostile del mondo: “We conquered our dreams and made sure to make more.” Una piccola biografia del gruppo dagli albori, nell’incertezza di quel che sarà ma fortemente motivati a perseguire la realizzazione delle loro passioni con l’impegno.
Home (here). Stand up and clap your hands, ritorno a favolosi intrecci di voci e chitarre, connotato distintivo di un sound complesso e molto originale. La chitarra accompagna meravigliosi accordi distorti di “ottava” (alla maniera di Wes Montgomery) rivisti in chiave contemporanea su scale jazz, voce e pianoforteamoreggiano lentamente su un quieto intermezzo nel giardino segreto dei sentimenti per poi finirein un crescendo con basso e chitarra e la solita voce angelica che urla “non mi posso fermare”.
Nella decima traccia, Woods, entro in un bosco fatato, quello del film “Legend”, con gli unicorni e tutte le creature fiabesche calati in un’atmosfera umida di echi e nebbiosa. Kayla racconta una favola di vita e chi ascolta può immaginare la propria. Una “Castle made of sand” contemporanea, con riverberi ed echi di chitarra sognanti. La ritmica molto elaborata ma mai invadente, quasi accomodante.
L’ultima traccia è October, è la metafora di come i cambiamenti della vita siano dominati dagli stessi principi di imprevedibilità delle stagioni che passano ineluttabilmente; ma qui ci si ricorda che la vita è comunque positiva. Una ballata ricca di strumenti che gigioneggiano a turno sulla voce. Tecnica compositiva di altissima qualità, che definisce quasi un nuovo genere musicale di un’espressività eccezionale. La ritmica si diverte in dissertazioni senza essere soffocante (molto efficaci le bacchette che accarezzano i bordi del rullante nelle pause). Il finale è il trionfo di un giro di basso, screzi di tromba e sax, vocalizzi, riff di chitarra in un caos organizzato che assomiglia quasi ad un atto sessualmusicale. Alcuni passaggi ricordano gli ultimi Talking Heads, quelli di Naked, con grande dovizia di particolari, suoni e timbriche tesi a creare un film di suggestive immagini raccontate da un usignolo.
E’ un disco che parla per immagini bucoliche costellate di scatti, dettagli,come le tracce di un animale o gli aghi di pino nei capelli, raccontano la vita quotidiana, velata di ermetismo, espresso tramite il solo abbozzo di particolari intimi ed apparentemente semplici come in “Gloria” o “Storm King” ed “home”. Risaltano ovunque le relazioni di coppia, tra genitori e figli, i progetti di vita, la vita quotidiana che fa da cornice alla direzione presa nella vita stessa cantati in prima persona. Bugie dette e verità tacciute, la difficolta nel comunicare in questo mondo. Su tutto aleggiano gli alberi con la loro fissità, certezza e bellezza, con la loro affidabilità. La natura ha il dominio sulle umane vicende: le stagioni che cambiano, gli alberi mutano il colore, il suolo si tinge del bianco della neve. Il mondo inteso come terra che si riappropria di se stesso e noi razza dominante riprendiamo un percorso di vita non più dominante ma simbiotico, determinato dalla natura stessa e dai suoi cicli (ritorna lo spirito de “Naked” dei Tlaking Heads). Abbondano riferimenti ad aspetti intimi della vita che possono essere colti solo dai destinatari (october) dei messaggi delle tracce.
Ascoltatelo quando volete disintossicarvi dal rumore di fondo della vita, la regola non è regola, non è necessario esagerare in superflui effetti che coprono la bellezza del gesto musicale, pompare il volume. Basta ascoltare ricettivi.
Sarà capitato a Mr Rotten di ascoltare “La cattedrale sommersa” di Claude Debussy? e a voi rockettari punkofili, lo-fi, lo-noise, nu-qualchecosa?
Sono tutti brani originali scevri da evidenti riferimenti e contaminazioni anche se, e per me è una chicca, ogni traccia ha nel proprio inizio il ricordo sfumato di una scena di un film visto chissà quando e chissà dove oppure una melodia che abbiamo sulla punta della lingua ma proprio non vuole uscire.
Sensibilità, intelligenza, cultura e semplicità: in questo giardino entra chiunque lo voglia, c’è un angolino per tutti. Negli ultimi venti anni si contano sulle dita di una mano lavori di tale portata ed il bello è che ognuno di noi custodisce geloso il proprio gruppetto di dischi. Per me è uno di questi.
Capolavoro non inquadrabile in specifiche categorie di genere, anche se i membri del gruppo dichiarano influenze quali Miles Davis, ella Fitzgerald.
Link
http://bigtree.bandcamp.com/album/this-new-year
http://www.facebook.com/bigtreesings
http://bigtreesings.com/