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Trenta Giorni Di Ares. #racconto

Trenta Giorni Di Ares. #racconto

Giorno uno.

Sentire che non ero più autorizzato al volo. Mi sono ritrovato prigioniero. Ero un recluso senza essere davvero un recluso. Mi sono fratturato un ala. Per trenta giorni non potrò usarla. Morirò di dolore? Sì, credo. Senza volo non esisto. Come posso essere me stesso se non possiedo più magia? Il cielo azzurro mi chiama a gran voce. Ed era così bello roteare tra le nuvole nere mentre un fulmine mi sfiorava le piume. Un azzardo di audacia. Sono folle, lo so. Ma sono un pennuto. Come posso frenare la melma d’angoscia che riempie i miei polmoni? Ogni giorno vedo loro, i miei fratelli. Loro volano e non si voltano neppure indietro. Li odio. Si fanno beffa di me, lo sento. Li odio davvero. Crudeli. Perché non restano con me? Il tempo è lento e mi è nemico. Un secondo è passato. Due secondi sono passati. Tre secondi sono passati. Quattro secondi sono passati. Cinque secondi sono passati. Dieci. Venti. Cinquanta. Cento.

 

No. Non è vero. Solo un secondo è appena passato. Come potrò vedere snocciolare trenta giorni? Tempo mi è davvero nemico. Lo odio. Sta rallentando di proposito, il bastardo. Lo sento. Anche lui si fa beffa di me. Lo sento ridere. Dietro di me. Mi tira sassolini alle spalle per puro divertimento. Odio davvero anche lui.

 

Ed ora, che succede? Uno strano colpo. Dentro il mio armadio. No. Non può essere. Di certo, è suggestione. Sono solo annoiato.

 

No. No, no, no. Non mi sono sbagliato. Un altro strano colpo nell’armadio. Ed un altro. Uno più forte degli altri. Devo vedere. Sì. Lo devo vedere. Ma no. Non posso. Ho un ala rotta. Non posso rompermi anche l’altra.

 

Che posso dire. Sono un pennuto. Sono incosciente. E in più una luce azzurrina filtra dalle ante dell’armadio. Devo vedere.

 

To be continued.

 

 

Giorno due.

 

Vuoi riuscite ad immaginare il mio stupore di fronte a quella vista? Dentro al mio armadio era stata nascosta una spiaggia. Una bellissima, tiepida spiaggia. Una spiaggia! Il mare d’un azzurro così dolce che sembrava quasi sussurrare di entrare. Mi sentivo stordito. Chi mai aveva deciso di giocarmi questo scherzo idiota? I miei vestiti ora saranno di certo completamente umidi. Dovrò lavarli. E come faccio con un’ala sola? Diamine, ci metterò il triplo del tempo.

 

La brezza però ha l’odore di cocco e di salsedine. Ed una musica. Lontana. Mi aveva stregato sin da subito. All’istante, il nervosismo era solo un ricordo lontano. Un eco di giornate passate. Anche il dolore era sparito dalla mia testa.

 

La sabbia era seta sotto le mie zampe ed il vento era molto più caldo di quanto immaginassi. Potrò restare a vivere qui per sempre? Sembra un paradiso. Bellissimo. Un luogo dove nessun’ansia sopravvive. Ne sono certo. Un luogo dove non è importante cosa sei e come di procuri il cibo. Un luogo dove la sveglia non suona mai, è proibito. Perché è lecito (anzi, è obbligo) dormire fino a tardi, senza alcun pensiero. Perché banche e tasse sono abolite e pure il dolore è abolito. Neppure il mal di cuore esiste. Vive solo la felicità. E la serenità. Anche l’insonnia è solo una patetica barzelletta.

 

Una cosa mi sfugge, solo una. Quest’albero è ben bizzarro: le foglie sono rosse con macchioline gialle a forma di stelle, il tronco è a fantasia leopardata con tutte le tonalità del verde ed è lana la materia di cui è composto. La musica nasce da lui, ne sono certo, da quest’albero: è lui ad emettere musica. Che ora è jazz. Ma poi diventa gothic metal. Per poi virare sul punk aggressivo. E planare delicatamente nel classico. Sono davvero confuso.

 

“Cos’è questo odore di estraneità?”

Una voce, non la conosco. Viene dall’albero. Ma da dentro, dico.

“Chi c’è lì fuori?”

Devo scappare?

“Rispondi o ti spezzo in due!”

 

To be continued.

Giorno zero.

 

Quando ero un uovo me ne stavo tranquillo e al sicuro. Avevo caldo. Dormivo sempre. Non avevo sete. Non avevo fame. Sono certo che non ho desiderato nulla per tutto il tempo che sono rimasto lì. Sì, è così. Ne sono certo. Non desideravo.

 

Ero protetto. Al sicuro. Nulla poteva turbarmi. Nessuna stupida ala si sarebbe fratturata se fossi rimasto al suo interno. Nulla mi avrebbe leso. Nulla. Sarei stato al caldo e al sicuro. Sentivo solo una voce. Tutto i giorni. Tutte le ore. Ogni minuto. Una nenia. Dolce. Una ninna nanna. Il guscio che mi cullava e mi abbracciava. Mi parlava. Lui mi amava.

 

Io ero suo.

E lui era mio.

Avvolgo. Stringo. E preservo. Luoghi. Cose. Strade. Persone. Uova. Pensieri. Parole. Uova. Mi piacciono molto le uova. Loro hanno un buon sapore. Hanno un bel calore. Di rettile o di uccelli. Ho sempre freddo. E quindi mi piacciono le uova. Ma mi annoio. E sono solo. Io mi annoio e sono solo. Però sono bello. Congelo. Stringo. E soffoco. La mia è solidità ontologica. Io sono un dio. E sono solo. Perciò io stringo. E congelo. Ingoio. Per lo più esseri viventi. Ma anche morenti, perché no. Accelero la dipartita. Mi piace essere il Tutto per ciò che soffoco. All’interno di me esiste la quotidiana stabilità. Che vorresti di più? Non uscire. Ingrato. Che t’importa? Perché vuoi uscire? Dentro di me non esiste il dolore. Non uscire. Sei uno stupido. Qui è quiete. No, non uscire, ti dico. Fuori inciamperesti, sei un incapace. Guscio. Dentro di me nulla ti farà male perché nulla succede / Gù·scio / Sostantivo maschile. Riposati. Sei al sicuro dentro di me. Fuori è una bugia. Fuori fa male. Fuori è dolore. Non guardare il sole. Non esiste. La luce è inganno. Che credi. / Gù·scio / Resta dentro di me. Troverai stabilità. Nulla. Nulla. Nulla. / Gù·scio / Io sono solo. Nulla. E tu devi restare solo assieme a me. Dentro di me non esiste nulla. L’attesa. La sorpresa. La gioia. Che t’importa di queste cose? Il teatro. La vita. La caduta. La ripresa. Il sonno. Il colore. Non ti serve tutto questo / Gù·scio / Sì. Resta con me a non fare nulla.

 

To be continued.

 

 

Giorno trenta.

 

Ripenso spesso a quel momento. A quel dolore. Lo rivedo. Tutti i giorni io rivedo quel dolore. E ricordo. Il momento preciso in cui la mia ala si è fratturata. Lo ricordo bene. Anche ora. Chiudendo gli occhi, percepisco nuovamente quel suono. Quel rumore. Una frattura. In tutti i sensi, non solo fisicamente. Percepisco la rottura. Era una frattura. Tra il passato ed il futuro. Un secco taglio. Deciso. Una fine. Un brutale segno che qualcosa doveva cambiare.

 

Ricordo il dolore. Lo ricordo bene.

Ricordo la frustrazione.

Ricordo la rabbia.

Ricordo il desiderio. Di volare. Ancora, ancora, ancora. E ancora.

 

Ed ora. Oggi. Perché ora ho così tanta paura.

Oggi è quel giorno. Oggi è il giorno.

Non aspettavo altro, no?

Potrò volare.

 

Io oggi potrò volare.

Di nuovo.

 

 

Potrò volare? I medici dicono di sì.

 

Bizzarro come io mi sia affezionato. Al gesso, dico. In questo lasso di tempo è stato tutto per me. Il mio fedele compagno. Mi fratello. Una parte del mio corpo. È stato il mio amore. Il mio odio. È stato il mio scudo. Lui mi ha protetto.

 

Contro il dolore. Contro la solitudine. Ed era con me. Lui era sempre con me. Ogni giorno nell’armadio. Lui era con me. Mi ha accompagnato. Buffo. Ora mi manca. Sento che questo gesso mi mancherà.

 

Non vorrei quasi separarmi da lui.

 

Senza di lui, non potrò più entrare nell’armadio. O meglio. Da oggi, il mio armadio sarà solo ed esclusivamente un armadio. Mi mancherà quel luogo.

 

Ma sapevo. Quell’essere era stato preciso. Trenta giorni. Non uno di più.

Solo trenta giorni e poi avrei dovuto abbandonare per sempre quel luogo.

 

 

To be continued.

 

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