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Recensione : The Veldt – The Shocking Fuzz Of Your Electric Fur: The Drake Equation Mixtape Ep

Cosa aggiunge "The Shocking Fuzz Of Your Electric Fur", ritorno in sordina dei Veldt, al calderone shoegaze? Chili di nulla

The Veldt – The Shocking Fuzz Of Your Electric Fur: The Drake Equation Mixtape Ep

Chi glielo dice ai Veldt che il loro EP The Shocking Fuzz of Your Electric Fur: The Drake Equation è l’equivalente d’un deliquio di Marvin Gaye nella jacuzzi in preda alle convulsioni per Darvon e Four Roses? Era dal 1998 che non si udiva alcunchè dall’ensemble di Raleigh, aggiungo che Afrodisiac coglieva un po’ dello zeitgeist ma ho sempre fatto fatica ad arrivare in fondo. Così quanto di quello che nell’album si ascolta possa essere ritenuto di effettivo valore sarebbe un’impertinente buona questione da porre al gruppo, anche perché nel marasma del NewNeoPop (sic) certo non si lesinano nuvole elettriche sferzate da mugugni, cioè più o meno l’ottanta per cento del noise pop di ora. Tutto conduce sempre alla caustica verità, ovvero che è stato attivato di nuovo l’interscambio per i binari della bigotteria, il treno della distorsione ha deviato e io vorrei avere cognizioni negromantiche per riportare lo zombie di Damon Edge a infettare mezzo mondo, ecco finalmente il Riformato Ordine del Noise. A questo punto tutto è diventato come era in nuce, un nuovo richiamo all’ordine: analogamente allo scherzetto pelvico di Elvis, The Shocking Fuzz of Your Electric Fur: The Drake Equation dei Veldt è una patta mezza aperta.
Spesso il fraintendimento gioca brutti scherzi. Kevin Shields e Bilinda Butcher stabilivano una connessione intima: il soffice prostrarsi dell’uno, il dimesso riecheggiare dell’altra (riverbero proveniente nientemeno che dall’aldilà); i fratelli Reid erano due Dionisi putrefatti, rissosi, che seducevano le passanti strisciando tra i vicoli di Glasgow, almeno in Psychocandy; qui tutto passa in mano a un coreografo di contemporanea che deve musicare una storia di droga nel ghetto di New York e però con le tute da ballo fluo della Adidas.
Il New York Press rasenta il delirium tremens scrivendo di miscela fra J&MC e James Brown, mi sembra un’associazione gratuita considerando la straordinaria potenza erotica del suddetto nonostante ai tempi fosse sfruttato più male che bene. Il disco è uno shoegaze anemico e ballabile, da cocktail bar, che stipa cinque estenuanti tracce che farebbero invidia a Metal Machine Music da quanto escono vampirizzate, toppando quindi negli intenti espressivi iniziali fallaci fin dall’aura pretenziosa che permea le canzoni. A poco serve piazzarsi dietro il dito dell’ambient. Potrebbe allora trovare un suo spazio William Sprunk, che nel testo Elementi di Stile nella Scrittura fissa l’assioma “Omettere parole inutili”, numero 13.
Ora, non è facile cannare di verbosità in un genere necessariamente verboso, ma per essere più sintetico altrimenti il fiume avrebbe troppi emissari riduco a due punti tutto il discorso:

1) Aggiungendo strati e strati di calore nel pezzo, s’intende braccate di vibrato e slides col fuzzbox più un cantato esageratamente lineare ed emotivo (in questo caso esageratamente messianico, ciao Bono) la gestione dello svolgimento diventa più complicata. Ogni buon musicista avrà pensato a come stemperare l’eventuale tono della composizione per raggiungere un equilibrio, un riverbero particolare, pure certi esempi di percussione perpetua o progressione di armonie quantomeno insolita; alcuni dei gruppi seminali migliori, consci del mood che le stesure andavano acquistando, intuirono che senza gran parte delle percussioni e con praticamente solo la pedaliera avrebbero filtrato il loro tedio thatcheriano attraverso una tramontana elettrica. Altri portarono allo stremo i Velvet. Altri ancora negli anni Novanta si ispirarono a Hendrix e al Krautrock di Amon Duul (I e II), Cosmic Jokers, Cluster. Capirete solo se siete stati in Fade Out.
Ergo, ci sono buoni gruppi che hanno saputo, e sanno, gestire il malloppone. In favore dei vecchi irlandesi e inglesi c’era il il passaggio di consegne politico più marcato; alcuni manifestavano una certa proletarietà intellettuale radicata appunto alle orge di strada newyorchesi di fine anni ’60, ma senza nulla togliere alle vite private dei componenti di tanti dei nostri gruppi non vorrei si uscisse troppo dal confine del divertimento. Esempio a caso: Machete, gran film del 2010, ha saputo precedere gli eventi, li ha ipotizzati con occhio attento al presente per ambientare la sua trama exploitation completamente insana (anche se Monsters dello stesso anno gli fa lo sgambetto). Per analoghi buoni motivi andrebbe compreso che spesso basta essere semplici, di pancia, solo così si può cogliere quello che si ha attorno, questo vale per tutti i generi della musica conosciuta, non parliamo poi del cinema. Che l’elettronica venga ruminata da nonsoquanto è un dato di fatto, e a me piace l’elettronica, e mi piace soprattutto se dà ansia: l’EP dei Veldt mi ha dato l’affanno. Questa riflessione ci conduce senza indugio al punto numero due:

2) I Veldt sono stronzi.

Curiosamente, chi riuscì a mantenere la macchina accesa per più tempo fu proprio chi comprese l’importanza del “rimuovere”.
Cosa rimane agli sgoccioli di un disco shoegaze salassato?
A noi, la speranza. Ma la cacca è dura.

TRACKLIST
1. Sanctified
2. In a Quiet Room
3. Token
4. One Day Out of Life
5. And It’s You

LINE-UP
Danny C. Chavis – chitarre
Daniel Chavis – voce
Hayato Nakao – chitarre

Tracce 1, 4 voce addizionale di Marie Cochrane
Tracce 2, 4 seconda chitarra di Andrew Prinz

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