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Rip

E' proprio così, la gente muore e lascia questa valle di lacrime, risate e infamità; ce lo ricordano i mass-media in modo certosino ogni giorno.

E’ proprio così, la gente muore e lascia questa valle di lacrime, risate e infamità; ce lo ricordano i mass-media in modo certosino ogni giorno. Una generazione cede il passo ad un’altra e le stelle cadenti che in qualche modo hanno lasciato un’eredità o un segno, non solo in denaro ma anche nella cultura, roba che ha influenzato e dato ispirazione a tanti altri nel proseguire un cammino verso il nuovo, rinascono attraverso gli adepti e dalle loro ceneri si trasformano in qualcosa di appena diverso da ciò che furono e che probabilmente mantiene alta la direzione già intrapresa.

Sembra di vivere con la spada di Damocle sul collo, con la ghigliottina affilata pronta a sgozzarci e nondimeno continuiamo in questa maniacale forma di ossequio quotidiana in favore dei freschi deceduti, siano essi stati grandi ammassi stellari o piccole meteoriti, che scompaiono al lumicino, almeno per noi che li osserviamo dal loro necrologio di turno.

A questo andazzo non si scappa e scappare alla morte è praticamente impossibile, il Prometeo ancora è da venire, e la tristezza del cordoglio ci colpisce come la goccia fissa in capo, quella della famigerata tortura cinese: goccia a goccia si scava anche la roccia! Così, noi altri vivi rimaniamo in vena di celebrazioni e pieni in cuore di dispiacere, seppur la vita vada avanti, ma con meno brio, subodorando gli scenari danteschi in un futuro che auspichiamo, italiani popolo di scaramantici, lontanissimo come le galassie remote.

L’asfittico paesaggio c’ha preso in castagna e declamare con un post la dipartita di un famoso altro essere è diventata una mania, come pure manifestare il proprio disappunto dopo una strage affiggendo una foto profilo espressiva di dolore, partecipazione e vicinanza. La quiete dopo la barbarie.

Vittime assuefatte, viviamo di dolori altrui, di impossibilità dal distaccarci da questa ‘death culture’ che soppianta con pervicacia la moda dei gattini gioviali – adesso campeggiano animali bistrattati, abbandonati, trucidati dal malefico uomo – e la politica è progressivamente distante dai post quotidiani, sparuti gli articoli sul dibattito e le arguzie della ragion di stato, si copia-incolla (drag&drop) e non si da ragione di sé, si posano passivamente mattoni su mattoni ‘on the wall’ mirando ad oscurare quel minimo garantito che appartiene alla rete sociale virtuale.

C’è la trincea e il post delle meraviglie paesaggistiche, turistiche, locali; le iniziative benefiche e gli eventi culturali che sponsorizzano un’apatia ben incorniciata ma ben lungi dall’entusiasmo partecipativo che dovrebbe traspirare dai promotori. Ecco, si diventa zombie, né vivi né morti, che partecipano ai festival, alle sagre, alle commemorazioni di piazza, alle feste di quartiere, alle marce di solidarietà, bensì per una indotta routine, pensando tra sé: sempre meglio che guardare la TV.

Si langue nel dormitorio generale senza poter alzare un grido ben assestato di contrarietà, mai uno sfottò serio, un acuto sberleffo, una intelligente riflessione sulle pagine web giuste; si va alla deriva dell’ingranaggio e dei soliti piatti problemi delle famiglie, delle spese al supermercatone, del politicamente corretto, delle troppe ore di lavoro, della strafottenza; per cui sembra di partecipare più che ad eventi a meste marce funebri, in stile stoogesiano direi, e corro alla magnifica e macabra “WE WILL FALL” che si trova agli antipodi dei sentitissimi echi funebri in stile dixieland appartenuti agli africani deportati negli U.S.A.

Diamoci una botta in testa (ogni tanto) e chiediamoci ‘ad personam’: – Ci sono ancora?

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