Questo mese si tinge di rosa.
Maria è una fotografa cazzuta e valeva la pena farvela conoscere.
Aprite il link sottostante per una buona colonna sonora
Buona lettura!
Nick Cave & The Bad Seeds/Kylie Minogue – Where The Wild Roses Grow
Az: Ciao Maria, racconta un po’ ai lettori di IYEzine chi sei!
M: Domandone, sarò breve, non mi piace tanto parlare di me.
Ho iniziato a fotografare da piccola, alle elementari, con la Zenith di mio padre.
Lui mi ha spiegato come riuscire a scattare una foto accoppiando tempi, diaframmi e iso in base alle condizioni ambientali in cui di solito mi trovavo: gite, mare, scuola, amici, gatti. Poi, mi ha regalato una Polaroid delle Spice Girls e poi ancora, crescendo, una point and shoot Olympus.
Per la continua carenza di soldi non sono mai passata al digitale se non nel 2013 e ho sviluppato un amore profondo per ogni tipo di pellicola. Adoro sperimentare con essa, anche in modo estremo e a volte distruttivo.
Credo che ciò che mi spinge a fotografare sia un’immensa curiosità nei confronti di qualunque cosa mi capiti di guardare.
Voglio conoscere la realtà attraverso l’atto del guardare.
Ad ogni modo, solo dopo aver completato gli studi in legge ho deciso di lasciare tutto il resto e dedicarmi soltanto alla fotografia, per cui, per colmare il vuoto formativo che sentivo di avere sulla teoria dell’immagine (di tecnica ne avevo abbastanza, date anche le macchine poco gestibili ahahah!), così ho iniziato a frequentare corsi e workshop tra Roma e Milano, con il collettivo Cesura, con Federico Clavarino e altri ancora. Ultimo, il corso alla ISSP in Lettonia, con Taiyo Onorato del duo Onorato&Krebs, dal nome quasi mistico “there’s treasures everywhere”.
Adesso, oltre il lavoro di fotografa in studio, porto avanti insieme ai miei progetti personali, come “Italiana Straniera”, anche quelli in duo con il mio collega Domenico, sotto lo pseudonimo Rumore Pair. Finora abbiamo sviluppato due lavori, “Creations” e “Boundary as a Frame” ed entrambi sono stati premiati in due festival internazionali di fotografia, il primo al Gibellina PhotoRoad, e l’altro al Prix Levallois.
Az: Da donna che fotografa donne, credi che ci sia differenza tra un corpo femminile fotografato da un uomo e da un corpo femminile fotografato da una donna?
M: Non so se quello che provo io nel farlo valga in modo univoco, sicuramente però posso dire che il mio approccio lo percepisco, lo sento, lo riconosco (anche nel viverlo, non parlo solo del risultato) decisamente influenzato dal mio essere una donna. Ovviamente tutto dipende dalle diverse sensibilità di chi fotografa e questo prescinde dal genere. Il corpo femminile è però, per me, un luogo del quotidiano.
Fotografarlo, per me, è – pur nelle sue mille forme differenti – come essere flaneur (n.d.r. passeggiatore svagato e a momenti curioso) nella città in cui si vive da sempre e che si conosce come le proprie tasche. L’occhio è così abituato a vederlo, lo guardo ogni giorno davanti allo specchio, negli spogliatoi delle palestre, in casa con mia sorella, le mie amiche, che non c’è quella attrazione per il mistero, il desiderio di scoprirlo, quel corpo è anzi un dato di fatto, un fatto meraviglioso, come solo i fatti completamente naturali sanno esserlo.
Dinanzi a questo fatto io cerco di asservirmi ad esso, di servire a tirare fuori qualcosa che è dentro quell’involucro e che cerca di trasparirne, per arrivare all’essenza.
Capisco che detta così può sembrare un pò una menata, però nel fotografare le persone mi hanno sempre guidata le parole di una poesia di William Butler Yeats, una poesia bellissima che dice:
From mirror after mirror,
No vanity’s displayed: I’m looking for the face I had before the world was made.
Ecco, è questo.
Az: Uno dei tuoi ultimi lavori è un reportage intitolato “italiana_straniera”, un documentario con protagonista una modella brasiliana: parlaci un po’ di come è nato il progetto e i motivi che ti hanno portato a farlo
M: Nel mio frenetico cercare corsi per migliorare mi ritrovo a contattare il fotografo napoletano Mario Spada.
Dopo avergli mostrato il portfolio ci siamo incontrati e mi ha chiesto di partecipare ad un progetto di documentazione sul territorio della Campania, Officina Reporter, sotto la sua guida all’interno del LL – Laboratorio Libero. E’ stata un’esperienza molto importante per me. Mario mi ha permesso di usare il mio linguaggio per raccontare qualcosa, per documentare, andando oltre la mera fotografia di un corpo. Lo ringrazierò sempre moltissimo per questo.
Visto che dovevo raccontare una storia di Napoli ho immediatamente pensato a Mara, a cui voglio un bene infinito. Mara Fakis è una modella bellissima, nata a Jaboatão dos Guararapes, una città a nord est del Brasile e adottata all’età di soli due mesi da una famiglia di Napoli. Ci siamo conosciute grazie al suo lavoro di modella e ballerina nel 2014, quando abbiamo collaborato con delle fotografie di nudo che stavo realizzando per una mostra, uscite anche su Fluffer Magazine.
il 21 febbraio 2015, di ritorno da una serata di lavoro in un locale, Mara ha avuto u
n violento incidente d’auto ed è stata scaraventata fuori dall’abitacolo, procurandosi ferite al volto, alla testa e alle mani ed entrando in coma per quattro giorni. Dal momento del risveglio la sua vita è radicalmente cambiata, ha perso parti di memoria che sta recuperando man mano e la fotografia è uno dei mezzi più utili per riuscirci. Oggi Mara vive in un altro quartiere, sola con il suo cane, non lavora più nei locali e si è fidanzata con un ragazzo suo coetaneo, anche lui sia di Napoli che di Jaboatão, si dedica a pratiche di sincretismo religioso che fondono cristianesimo e culti delle regioni amazzoniche e si è iscritta di nuovo all’università, con indirizzo in lingua portoghese.
Il lavoro fotografico fatto assieme a lei cerca di analizzare il percorso di recupero e di ricerca di sé, percorso che lei ha portato avanti autonomamente, aiutandosi con la ricerca e con l’invenzione (da leggersi sia come creazione che come ritrovamento, secondo l’etimologia latina) di un passato ancestrale, di cui non ha reale memoria, legato ad origini e tradizioni tipiche della regione del Brasile dalla quale proviene ma che non ha mai conosciuto effettivamente, eppure, ne sente comunque il richiamo, pur avendo vissuto sempre a Napoli ed essendo italiana a tutti gli effetti.
Il recupero di una nuova normalità, di una nuova coscienza di sé e di quelle parti di memoria perdute si è così concretizzato attraverso una rielaborazione dei ricordi in chiave “etnica” e profondamente selettiva, anche sostitutiva a volte.
“Italiana straniera”, il titolo di questo lavoro, è infatti, prima di tutto, il suo pseudonimo su internet, una coppia ossimorica che lei sente descrivere la sua essenza, il suo dualismo.
Ciò ci mette di fronte all’interrogativo su cosa è e può essere il passato per l’essere umano e come un evento traumatico può generare un’idea di esso completamente nuova. La risposta può essere forse trovata nel paradosso del divenire, di cui scrive Deleuze nel suo “Logica del senso”: il divenire è presente, passato e futuro al tempo stesso e questa condizione sarebbe invivibile se non ci fosse il linguaggio a decodificare e fissare i limiti dei tre momenti. L’essere umano non riesce a prescindere dal passato e dal futuro mentre sta vivendo il suo presente, per cui ha bisogno di colmare questi spazi se improvvisamente li ritrova vuoti, dandosi delle risposte, cercandole ad ogni costo. Senza l’appiglio del passato come base su cui costruire la propria identità, senza la previsione di un futuro verso il quale proiettare la propria esistenza, non ci sarebbe un vero vivere il presente in modo cosciente. Anche in questo lavoro c’è una ossessiva presenza del corpo – il dato di fatto – alternata a pause compositive – i vuoti, le incognite – rappresentati dagli ambienti della casa nuova, spersonalizzati, non ancora rappresentativi dell’identità della nuova inquilina, che sta cercando di fare ordine nella matassa dei ricordi e delle sue nuove possibilità di essere.
Il lavoro è stato esposto a settembre a Salerno, al Complesso Monumentale di Santa Sofia, in occasione della presentazione del progetto Officina Reporter. Ora vorrei pubblicarlo, non ho ancora deciso se presentarlo a riviste e concorsi o farne direttamente un self publish, come mi è stato consigliato quest’estate alla ISSP dal fotografo inglese Jason Evans, a cui ho mostrato il lavoro. Lui mi ha dato deiconsigli importantissimi e incoraggiato molto nell’impegnarmi per far conoscere la storia di Mara.
Az: Nel 2014 insieme al tuo collega Domenico d’Alessandro avete messo insieme il collettivo “Rumore Pair” con cui “vi concentrate sul rapporto tra i limiti della rappresentazione inerenti il medium fotografico e l’invenzione come possibilità di parlare di ciò che ci circonda”. Parlaci un pò di questo aspetto del fotografare. Su questi presupposti è nato il progetto “Boundary as a frame”?
M: L’artista contemporaneo è un creativo del senso, partiamo da questo assunto. Produrre immagini belle, bellissime, senza che abbiano poi alcun senso è inutile. E la fotografia permette di appiattire e comprimere in un piano visuale di chiaro riferimento, spazio, tempo e senso assieme e rendere tangibili i limiti della comprensione della realtà che ci si pone dinanzi, semplificando i concetti grazie al linguaggio visivo.
La fotografia non rappresenta la realtà, essa è invenzione, nel significato latino della parola, invenio: è una scoperta, il ritrovamento di qualcosa all’interno della realtà di cui si dispone e questo è chiaro a tutti. Non è la realtà, molteplice, irrisolvibile, continuamente mutevole, ma una sua porzione eletta e resa leggibile grazie alla capacità semplificatoria che è propria di ogni linguaggio. E la fotografia è un linguaggio, questo è ovvio. La fotografia, per tutti questi motivi che ho appena detto, è dunque una pratica che permette all’uomo di entrare in quella dimensione che trascende lo spazio e il tempo, di abbattere i muri invisibili tra spazio e tempo, utilizzandoli a proprio piacimento, anche spalmandoli su uno stesso piano, giocando con essi. Con la fotografia si può rendere visibile il tempo o annullare lo spazio, le relazioni spazio temporali possono anche essere inventate, per dare l’idea di qualcosa che esuli dalla realtà sensoriale in cui normalmente viviamo, qualcosa che vada al di là di essa. La fotografia diventa, per questa sua capacità intrinseca, medium di elezione per l’atto di creazione. Grazie alla genesi tecnica del mezzo fotografico e alla sua capacità di infinita registrazione e ripetizione, è possibile potenziare e intensificare la realtà, la visione di essa, la sua lettura.
Anche con “Boundary as a Frame” abbiamo analizzato questi aspetti della fotografia, con la fotografia. L’intento del lavoro è quello di rappresentare l’ambivalenza del concetto/simbolo di confine, inteso sia nell’accezione politica che in quella prettamente inerente al medium fotografico. La sovrapposizione tra le mappe, screenshot spersonalizzati catturati dal satellite di Google Earth e l’imporsi di una ingenua e prepotente biografia personale, di un ritratto, la fotografia vis à vis per eccellenza, che rappresenta una singola ed irripetibile storia, si interseca con i limiti del medium fotografico e la possibilità di stratificazione simultanea possibile grazie all’internet. Volevamo ritrarre i ragazzi africani conosciuti in una fabbrica occupata nella nostra città (Foggia) con uno stile che facesse rimando alla fotografia “vernacolare”, la dimensione privata del medium fotografico, secondo i canoni estetici da loro stessi riprodotti nelle fotografie che si scattano e postano sui social networks. Ci siamo meravigliati di una costante: la presenza di cornici colorate inserite sulla foto con app tipo instagram, che estraniavano il soggetto dal contesto restringendo lo spazio intorno alla foto, non permettendo di risalire ai luoghi e alle condizioni di permanenza. Dopo la fase di shooting è nata l’idea di reinterpretare la cornice con qualcosa che complessificasse l’immagine, chiarifcandola. L’idea della stratifcazione delle mappe tende esattamente in questa direzione, rappresentando la dimensione politica del sé. Le cornice che abbiamo inserito sono parte integrante dell’immagine, simboleggiando il confine come una forza di controllo, che limita, classifica e spesso esclude. Ad essere funzionale nel nostro progetto però non sono le mappe che rappresentano il percorso migratorio di ognuno dei ragazzi fotografati, ma proprio loro, con le loro storie intime e personali. Eravamo interessati a personalizzare un processo che, fin troppo analizzato e storicizzato, spesso perde di vista le storie personali di chi intraprende un percorso migratorio.
Az: Rispondi ad una domanda che non ti è stata posta ma a cui avresti voluto rispondere
M: “Su cosa ti stai concentrando adesso?”
Ora io e Domenico abbiamo aperto uno studio fotografico che è sia il nostro lato commercial che un atelier. Una cosa bellissima che stiamo facendo e che mi fa sentire bene, mi sta dando grandi soddisfazioni, è un corso di fotografia per dei ragazzi schizofrenici di un centro diurno. Stiamo analizzando il lato creativo della fotografia, a lezione parliamo di visione, approfondiamo l’opera di grandi autori (oggi abbiamo parlato di Luigi Ghirri). I ragazzi sono molto ricettivi e interessati. Il corso durerà sei mesi, ogni ragazzo produrrà un proprio lavoro fotografico che racconterà la sua sensibilità, il suo vissuto e lo editeremo in maniera collettiva in classe, probabilmente ne verrà fuori anche una mostra ed una piccola pubblicazione. É la nostra prima esperienza con un laboratorio del genere, così completo e l’emozione è esplosiva!
Chissà cosa ne verrà fuori…
Tumblr Personale: http://mariapalmieri.tumblr.com
Instagram: https://www.instagram.com/maria_palmieri_foto/
Tumblr Rumore Pair: http://rumorepair.tumblr.com/
Articoli utili:
Mario Spada (Officina Reporter): http://www.officinareporter.it/ll-laboratorio-libero/
Boundry as a frame (Article): https://i-d.vice.com/fr/article/la-frontire-est-un-cadre-dpasser
Prix Levallois: http://www.prix-levallois.com/
Gibellina PhotoRoad: http://www.gibellinaphotoroad.it/call/
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