Joe Lally @ Circolo culturale Aggabachela – 08/01/2011. Squadra che vince non si cambia: dopo il successo del Reeson Electric Festival di Giugno, Reeson e il circolo culturale Aggabachela di Sassari inaugurano il 2011 con un concerto epocale, sia per la fattura del frontman in questione, sia per l’incredibile livello artistico espresso nel corso dell’esibizione. Joe Lally, già bassista di Minor Threat e Fugazi, si presenta al pubblico sardo ben supportato da Elisa Abela e Fabio Chinca, (già Assalti frontali, Brutopop e Primati), proponendo un post rock riflessivo quanto efficace, che non può non ricordare le cadenze più soft degli ultimi Fugazi, ma che è illuminato da una malinconia pop tipica di gruppi come Deus e The New Year.
La limitata estensione vocale può lasciare perplessi, ma riflettendoci su appare non come una manchevolezza, ma anzi funzionale al progetto Lally: concentrare il mood del gruppo verso tematiche sociali che vengono quasi sussurrate, suggerendo una maturità artistica che non ha bisogno di colpi ad effetto, ma anzi dalla asciuttezza degli arrangiamenti trae la sua forza. Mentre ascolto la band, è proprio questo coraggio che mi fa costantemente rimbombare quelle frase che è stata il manifesto della “generazione Fugazi”: “nevermind what’s been selling / it’s what you’re buying”.
Il concerto è il sunto di questo manifesto. In fondo mente nei Fugazi Ian MacKaye urlava e Guy Picciotto si dimenava abusando della chitarra, Joe era quello che suonava placidamente al fianco del batterista Colin Sears, quasi alienato dal contesto. I brani presentati, tratti dai primi due album, “There To Here”e “Nothing Is Underrated”, riflettono il carattere del suo leader, schivo e semplice. Lally è un menestrello che sottovoce vuole raccontare storie di povertà delle favelas argentine, di ripudio alle guerre, di rifiuto di ogni prevaricazione, di odio nei confronti delle armi. E’ un anti-macho, che in punta di piedi culla il pubblico in un’ora e mezza di racconti che ci portano alle periferie del mondo, quelle Pasoliniane, degli ultimi, quelle delle sceneggiature più crude di Ken Loach. Gli inserimenti di chitarra sono puntuali e mai gratuiti, le linee di batteria fanno ritornare alla mente i Tortoise e gli Slint, in alcuni slanci avant-core, ma poi l’approccio da cantautorato indie di stampo americano la fa da padrona, riportando i trecento paganti ad un costante dialogo tipico del folk più intimo. L’attenzione non cala mai, l’atmosfera è sublime, e quando mi giro incontro gli sguardi stupefatti dei tanti che forse non conoscevano perfettamente il nuovo percorso del bassista di Silver Spring, ma certamente hanno apprezzato lo spessore e la qualità della sua nuova proposta artistica, tanto valida quanto lontana dai circuiti mainstream del rock contemporaneo.
Perché non importa cosa gli altri vendano, quello che importa è ciò che tu compri.