Era il 1995 quando la benemerita label californiana In The Red Recordings dava alle stampe una delle sue release più riuscite e memorabili: “Don’t like you“, il quarto album – all’epoca – dei Cheater Slicks, terzetto statunitense fondato nel 1987 a Boston (città in cui non si sono mai sentiti capiti né apprezzati, ma che in passato aveva già visto nascere un importante focolaio garage rock/punk, con la presenza di DMZ, Lyres, Real Kids e altre formazioni di outsiders) formato dai fratelli Shannon (Dave alla chitarra e Tom alla chitarra e voce) e Dana Hatch alla batteria e voce, tre ragazzi innamorati del Sixties punk e del rockabilly, e generatori di un sound lercio lo-fi e rumoroso, quasi al limite della cacofonia, che combina garage rock e blues, il tutto filtrato attraverso l’ottica e l’etica del punk rock: si sentivano fuori posto e non erano facilmente classificabili, troppo estremisti per essere annoverati nel nascente movimento “grunge”, e a disagio in un ambiente giovanile cittadino Eighties troppo orientato verso l’heavy metal. Il disco venne realizzato in un tumultuoso periodo di tensioni e problemi economici all’interno del trio, e fu registrato a New York insieme all’amico, e loro supporter, Jon Spencer (con cui andarono anche in tour, insieme alla sua Blues Explosion) che prestò la voce su un brano (anzi, due: in una versione seriosa sul languido spoken word “Sensitive side“, e cazzeggiando nella ghost track posta alla fine dell’ultimo brano dell’Lp, in cui giocava a fare la parte di un tipo che parla al telefono col tizio di un negozio di dischi) e si occupò della produzione del full length, facendo un discreto macello nel saturare e rendere ancora più dissonanti, urticanti ed esplosivi i suoni già incendiari del gruppo.
Quest’anno, per festeggiare la ricorrenza dell trentesimo anniversario, la In The Red ha ripubblicato “Don’t like you” in versione aggiornata in doppio Lp arricchito di liner notes, artwork espansi e tracce extra in versione demo, colmando anche la lacuna del rimettere in circolo la versione vinilica dell’album, da decenni fuori stampa. E, per una volta, ci permettiamo il lusso di gioire di una ristampa celebrativa lontana dai riflettori patinati del mainstream, sospinta da zero battage pubblicitario e incentrata sul recupero di sonorità rock ‘n’ roll assolutamente marce (in linea con la seconda ondata di garage rock revival che, tra fine anni Ottanta e metà Nineties, aveva partorito altri ensemble incredibili come Oblivians, Chrome Cranks, Bassholes, Honeymoon Killers, Pussy Galore, Gories e compagnia) che attentano al buongusto dei palati fini e alla salute di parecchi timpani educati (e questo, per noi, è un bene e dovrebbe essere un motivo di vanto).
Già dalla sguaiata opener “Feel free” i Cheater Slicks (una di quelle band che non prevedono l’uso del basso nella loro line up) mettevano le cose in chiaro con l’ascoltatore, in modo da fargli capire che, se non scappa via inorridito e gli concede una chance, si lascerà conquistare e non potrà più resistere a un vortice di laido garage punk strascicato e devoto alla lezione aussie degli Scientists, che fa il paio con lo scatenato country/punk di “Motherlode” (che vedeva il padrone di casa degli oggi defunti Funhouse studios di NY, Jerry Teel fare una comparsata alle prese con una allucinata harmonica) e cavalcate impasticcate Stoogesiane come “Destroy you“. Se con “There’s a girl” trovava spazio un barlume di leggerezza adolescenziale (del tipo: come avrebbero potuto suonare i Beatles ubriachi persi e strafatti di amfetamine ad Amburgo se si fossero divertiti a sfondare gli amplificatori coi loro strumenti e poi schitarrarci dentro per vedere l’effetto che fa) i veri marchi di fabbrica del combo risiedevano negli sgarrupati punk-blues “You ain’t good” e “Spanish rose“, dal ritmo caracollante ma mortifero. Tuttavia, il meglio del peggio viene riservato per la fase finale della tracklist: la cover di “Should I” dei misteriosi Half-Beats (con Hatch che sembra fare il verso a Johnny Thunders) lascia il posto alla tellurica “Poor me” (a detta di chi vi scrive, il picco non-qualitativo di questo lavoraccio) quattro minuti di elettrizzante garage punk che infonde, in chi ci si imbatte, una scarica di adrenalina tale da spingere ad alzarsi entusiasticamente dalla sedia e spaccare tutto. “Sadie Mae” è ancora più depravata nel suo incedere in un fottuto garage punk dinamitardo che non lascia speranza a voi che origliate questi solchi. La cover di “Mystery ship” dei garage rockers newyorchesi Mystic Tide chiudeva col giusto quid di malignità e disperazione un long playing che sprigiona furiose energie represse.
Non da meno le versioni demo dei pezzi, ancora più crude e ruspanti di quelle ufficiali, con un plus di ben sei canzoni rimaste fuori dalla scaletta definitiva: “Trouble man” e “Hook or crook” (poi pubblicati come singoli) “Wedding song” e la cover di “Walk up the street” dei Modern Lovers (suonata con l’impeto HC punk dei primi Hüsker Dü, entrambe fatte uscire come 7″) la semiballad “To need someone” e “Ghost” (quest’ultima, successivamente, sarebbe stata inserita nell’album “Forgive thee“, uscito nel 1997) un’altra discesa agli inferi coi santini di Stooges, MC5 e New York Dolls nel portafogli. “Don’t like you” segnò gli ultimi giorni dei nostri a Boston: nel 1996, infatti, i tre si trasferirono in Ohio. Tre decadi sono passate da allora, ma questo disco vi brucerà ancora le budella.










