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Recensione : :: ACUFENI :: FASTIDI AURICOLARI CONTEMPORANEI #24

Meatwound, Namebearer, Oracle Hands, Paralyzed, Svarta Havet. :: acufeni 24 :: ...what else?

Meatwound, Namebearer, Oracle Hands, Paralyzed, Svarta Havet

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Meatwound – Macho

I Meatwound sono un quartetto statunitense di Tampa (FL), che arriva al suo quarto album in dieci anni di attività. Ogni loro passo è stato un salto nel buio per tutti coloro che pensavano di averli intercettati e inquadrati. Compreso quest’ ultimo.

“Macho” infatti ce li mostra ancora una volta cangianti rispetto alla loro ultima uscita. In questa occasione i quattro hanno inserito elementi elettronici e sperimentali funzionali a quello che è, attualmente, il loro mood musicale. Hanno quindi cambiato un’altra volta direzione in corsa, anche se, sinceramente, in questa occasione non tutto è andato a buon fine. Manca infatti, a nostro avviso, quella voglia di osare, che avrebbe permesso di fare un vero e proprio salto di qualità. In pratica hanno fatto un passo forse più di lato che non avanti. L’album è, conseguentemente, un susseguirsi di alti e bassi, che mostrano una notevole voglia di sperimentare, ma che si arena proprio quando dovrebbe delirare.

Peccato, soprattutto per noi che amiamo perderci in tutte queste soluzioni che fanno delle distanze, delle differenze, e delle dissonanze il proprio credo.

Resta comunque quello che è uno dei loro punti forti, e cioè quel “sentire” hardcore, che unisce suoni e ideali, sancendo una base intorno a cui lavorare. Alla fine il disco ci lascia sostanzialmente interdetti. Se è vero che ci piace l’idea del cambiamento, soprattutto in ambito musicale, dobbiamo per forza di cosa, alla fine, lodare i Meatwound per aver pensato (e realizzato) un album audace, che, se per alcuni risulterà fuori focus, rappresenta invece un tentativo di andare in una di quelle direzioni che tutti cercano di scansare.

Per questo, quindi, ci piace pensare che stiano già lavorando per sorprenderci ancora.

Namebearer – Industries of the Fading Sun

“Industries of the Fading Sun” è (escludendo il demotape dello scorso anno) il primo vero passo dei Namebearer nei meandri infuocati del metal estremo. I cinque brani dell’EP (autoprodotto) raccontano una mezz’ora di assalto sonoro incentrato, e focalizzato, sulla concretezza.

Un disco che lascia da parte l’estetica, la pulizia sonora e tutti quegli inutili orpelli che spesso invece rappresentano il focus in questi nostri tempi moderni. Gli statunitensi non fanno infatti mistero di volersi (e di volerci) ricollocare temporalmente in quei contesti passati fatti di suoni crudi e diretti, lontani da quei dischi “di plastica” che occupano le pagine delle riviste musicali specializzate spinti da uffici stampa incalzanti. Formatisi nel 2023 come progetto solista, Namebearer diventa quasi subito un duo, identità mantenuta fino ad oggi. Di loro sappiamo pochissimo. Arrivano dal Maine, la propaggine più a nord della costa est degli USA, e cercano di portare in musica tutto il freddo che li accompagna durante l’anno, soprattutto quando le temperature invernali viaggiano costantemente sotto lo zero.

Non a caso il loro approccio è decisamente orientato, e ispirato, dalle sferzate scandinave black metal di fine millennio scorso. “Industries of the Fading Sun” è, in sostanza, un disco che non ama perdersi in dettagli, andando a prediligere un assalto frontale, che, per quanto (a volte possa essere) crudo e disorganizzato, mostra con onestà il proprio lato più spontaneo. Il loro è un mondo apocalittico in cui tutto è scomparso o andato distrutto.

Restano solo le macerie di quello che oggi è solo decadenza e miseria. La loro è una visione nerissima che si riflette con un sound altrettanto nero e privo di speranza. Dove non c’è luce possiamo solo aspettarci album come questo dei Nemebearer.

Un EP calibrato sull’istinto e non sulla ragione, che si specchia quindi nell’oscurità del male di cui si nutre, in un mondo dove tutti hanno fallito

Oracle Hands – Dirge for the Doomed

Gli Oracle Hands sono da poco arrivati al loro debutto discografico grazie a questo “Dirge for the Damned” (Moment of Collapse Records), album che ce li mostra come una realtà che, nonostante sia solo agli esordi, mostra di possedere una buona dose di personalità. Il disco è un ottimo esempio di come ci si possa (e forse ci si debba) spostare attraverso generi affini, senza però perdere la bussola, o fermarsi troppo in un particolare contesto sonoro. Sia chiaro, non stiamo glorificando “the next big thing” in ambito estremo, questo no, senza alcun dubbio, vogliamo solo sottolineare come la band riesca a fare il proprio lavoro con un’apprezzabile connubio che unisca cuore e mente.

La loro grande forza infatti, è quella di riuscire a destreggiarsi in mezzo a tutte queste soluzioni, andando a creare un qualcosa di omogeneo, di coeso e di perfettamente armonico, senza cedimenti o incertezze. Il loro è un sound diretto e potente, che però non disdegna di aprirsi a momenti più intimi, dove il pathos raggiunge il livello di guardia. “Dirge for the Damned” è quindi da considerare come un album minaccioso e granitico, che sicuramente andrà ad accontentare tutti coloro che cercano di eludere la noia di album identici, dal primo all’ultimo brano.

Se, come si dice, il secondo album è quello che ci permette di capire quella che sarà la strada futura di una band, per gli Oracle Hands ci sono tutte le premesse per un domani roseo. Resta solo da capire se riusciranno a fare tesoro delle critiche per migliorare quei dettagli che, come per tutti i debutti, sono all’ordine del giorno, ma non devono diventare dei macigni da cui farsi schiacciare.

Paralyzed – Rumble&Roar

“Rumble & Roar” è uno di quei dischi che abbiamo fatto fatica a togliere dallo stereo. Inutile stare a girarci troppo intorno, quello dei Paralyzed è un album che porteremo tra i ricordi più piacevoli di questo 2025. Sono tanti, e tali, i lati positivi del disco, che non è nemmeno facile iniziare a parlarne.

Quello che ci ha colpito maggiormente è l’affascinante gusto per le sonorità vintage dalle forti connotazioni blueseggianti, che richiama quella psichedelia acida statunitense in voga negli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta. Non siamo però negli states, ma in Europa, in Germania per la precisione.

Cambia di poco. Il disco non perde il proprio valore assoluto, innegabile. “Rumble & Roar” riesce ad essere, al tempo stesso, sia sognante che selvaggio, portandoci a ritroso, in un contesto che abbiamo sempre amato per il suo saper essere libero e di rottura.

Un contesto a cui ancora oggi, in molti pagano dazio, anche se, probabilmente, non lo ammetteranno mai. Quella dell’hard blues contaminato dalla sperimentazione lisergica è una liaison che ci lascia da sempre una piacevole sensazione addosso fatta di coerenza sonora. Il disco, il quarto per loro, è stato registrato in presa diretta, in virtù della scelta, e dell’idea, che si dovesse cercare di rendere quanto più intenso e mirato il loro sound, liberandolo da tutte le sovrastrutture inutili. Ne è uscito un sound grezzo, e giustamente orientato verso soluzioni che non vadano a discostarsi più di tanto da tutto quel mondo che hanno mostrato di adorare (e di omaggiare).

Un album possente, che guarda all’importanza del groove prima di tutto, e che ci rispedisce indietro nel tempo, in cerca di quel sound sporco e maledetto che facciamo coincidere, oggi, con il southern gotic. Il tutto, sempre, con grande eleganza.

 

Svarta Havet – Månen ska lysa din väg

Antifa, queer, femminismo, anticapitalismo, antispecismo ed ecologia. Questi alcuni dei temi più cari al collettivo finlandese Svarta Havet. Non male come punto di partenza per un quartetto che in molti si ostinano a collocare in ambito post black metal, e che, invece, secondo noi, deve essere lasciato libero di andare esattamente dove vuole. Dovendo – messi alle strette – definirli in due parole, andremmo verso un binomio hardcore crust.

Ma questi sono giochi che sfociano in un autoerotismo che preferiamo lasciare ad altri. Ciò che conta è l’approccio sociopolitico di una realtà che mostra di vivere e pensare senza compromessi, e che non ha paura di dire quello che pensa. Nel loro recente “Månen ska lysa din väg” troviamo ancora acceso il fuoco della rivolta, quello che dovrebbe portarci ad un’inversione e a quel sospirato cambiamento, al momento ancora invisibile. I quattro arrivano da Turku, in Finlandia, e sono attivi dal 2018, da quando cioè hanno fatto la loro comparsa all’interno della scena punk hardcore DIY scandinava. Mai come questa volta la scelta del loro nome (Mar Nero) rappresenta il modo migliore per presentarsi al mondo.

Il loro è infatti un oceano di pece nerissima in cui cerchiamo di restare a galla, ma con risultati scadenti. Un oceano che è un continuo saliscendi di emozioni, in cui la distruzione della melodia è l’ìsola verso cui stiamo navigando. Una carneficina sonora che li porta controcorrente in un mondo musicale estremo che sta invece mostrandosi sempre più plastificato e omologato. Svarta Havet sradicano la loro essenza più profonda, quella più grezza, viva e sincera, e con essa costruiscono il loro manifesto di protesta. “Månen ska lysa din väg” (“La luna ti illuminerà la strada”) è un album che suona onesto nel suo essere a tratti imperfetto.

Un disco di grande impatto che saprà soddisfare tutti coloro che guardano alla sofferenza sonora come viatico per esorcizzare quella quotidiana. Guidati dalla luciferina Lotta (alias Charlotte Green) i quattro spingono a mille sull’acceleratore, con rinnovata forza in cerca di quella giustizia sociale ancora troppo lontana, ma senza disdegnare momenti di grande e intensa malinconia.

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