Naima Bock
Naima Bock è la sua musica sono la summa di molte cose, l’incontro di varie culture con un’eleganza ed un minimalismo di base che la rendono un’artista molto interessante.
Il suo debutto “ Giant Palm “ su Sub Pop Records riflette tutte le sue varie nature, le situazioni e i luoghi vissuti.
Volendo giocare con le sue origini si può dire che Naima fondi bossanova e folk inglese, ma c’è molto di più. Nata a Glastonbury e cresciuta in Brasile per poi tornare in Inghilterra dove risiede attualmente, Naima entra poi nelle Goat Girls alle scuole superiori, gruppo dove suona il basso e con il quale compie le prime tournée.
Dopo sei anni lascia il gruppo ed intanto studia archeologia all’Università, dato che come afferma lei le piace stare vicino al terreno. Nel frattempo non smette di studiare musica e suona vari strumenti, e tutto ciò le regala una visione esaustiva della ricerca musicale. Nella sua musica ci sono molti elementi, anche se è molto minimale, un folk anglosassone con forti influenze brasiliane le quali non spiccano in maniera netta perché sono amalgamate benissimo con tutto.
Di brasiliano c’è soprattutto la cura maniacale della singola nota, le melodie pure che escono intatte dalle linee delle canzoni, le invenzioni uniche e coraggiose di alcuni passaggi.
L’elemento inglese è il folk di base, il sottobosco della sua costruzione, quel folk chitarristico minimale ma al contempo ricco e caldo. In certi momenti sembra di ascoltare un’evoluzione psichedelica del percorso musicale contenuto in “ Rubber Soul “ dei Beatles, che fu il prodromo della loro svolta psych. “ Giant Palm “ è un disco a suo modo ambizioso ed importante, attraversato da atmosfere uniche e da momenti molto originali, non c’è imitazione ma c’è tutta Naima ed il suo mondo che è assai interessante.
Altro elemento molto importante del disco è la sua voce che ci guida nel suo mondo, guida psichedelica nel bosco delle meraviglie. Un disco sospeso nell’aria, sognante, acido e che riconduce ad un suono perduto, in certi tratti commovente e sempre vivo, un gran bel debutto.
Charlie Gabriel
Charlie Gabriel è un musicista jazz proveniente da un’altra epoca musicale e che ancora ci regala fieramente dell’ottima musica che va dritta all’anima. “ Eighty Nine “ è il suo primo disco per la Sub Pop Records ed è un capolavoro di jazz.
Fondatore della Preservation Hall Band, Charlie suona ininterrottamente dall’età di undici anni e non vuole smettere di farlo dato che pensa con piena ragione che questo sia il dono che gli è toccato. Dalla prima jam con il padre e la sua band Eureka Jazz Band che si esibiva in quel di New Orleans ne sono passate di cose, e l’unica costante rimasta inalterata è lei, la musica e che ritroviamo protagonista di questo disco. “ 89 “ contiene sei standard jazz e due inediti.
In questo disco Charlie canta in tre tracce, ed è veramente un fatto raro, dato che non ha quasi mai cantato nei suoi dischi e se la cava molto bene, anche se è talmente bravo con il suo sassofono, il suo clarinetto ed il suo flauto che cantare è quasi un di più.
La musica scorre calma e libera, pervade tutto lo spazio sonoro perché Charlie riesce a far sentire all’ascoltatore molto di più della canzone, lo porta oltre, in una commistione di classe e bellezza, un’unione di gusto antico, di un jazz che forse non tornerà più ma che ora è qui, troppo bello per non essere goduto. Ascoltare un disco così fa respirare l’anima ed è un’ottima introduzione al jazz. Non so sinceramente se sia il primo disco di jazz pubblicato e distribuito dalla Sub Pop Records, ma è la dimostrazione suonante della visione di questa etichetta ha cominciato con determinati gruppi e ora sfocia in tantissimi generi diversi, mantenendo ferma la rotta della qualità e di una certa etica musicale che ha fatto scuola.
Un disco che accarezza, che fa bene e che è terapeutico, per curare le ferite o anche solo per ascoltare qualcosa di estremamente bello.
DROWN
Drown è la creatura musicale solista di Alberto Bombarelli e “ Blues “ è il suo terzo lavoro in uscita per Selvatico Dischi. Doverosa premessa è dire che questo disco è qualcosa di dirompente e di unico nella scena italiana, come impatto si avvicina ai lavori di Edda, è qualcosa che non potete controllare, fluisce semplicemente, e suona benissimo che lo vogliate o no, e non possiede l’ossessione del genere, Drown è Drown e basta.
Il lavoro è un flusso di coscienza, anzi sono svariati flussi di coscienze dato che Drown è uno se lo si vuol vedere così, ma è molteplice.
La sua musica è un montaggio di scene singole, di movimenti che quando sembrano saturarsi allora saltano verso l’alto, e “ Blues “ si può ascoltare come un vero e proprio continuum. Alberto è talmente bravo che riesce a rendere interessante e piacevole un pezzo composto letteralmente da versi come “ Can i be a man for you ? “e ci riesce benissimo. Si potrebbe quasi definire free blues quello che fa lui, o folk altro ma in fondo sarebbero solo vuote definizioni. Anche il fatto di cantare sia in inglese che in italiano anche all’interno della stessa canzone è originale e affatto facile, ma questo ragazzo non fa nulla di facile ma tutto bene ed interessante.
Chitarra, basso, batteria e poco altro, una musica che entra in profonda relazione con le parole e viceversa, una completa fusione fra autore e creazione, un qualcosa che prende il via dai mostri sacri del cantautorato alternativo anglosassone ma che è profondamente nostrano, una via che passa fra le contraddizioni, la simpatia fra contrari e la simpatia tout court.
Entrare dentro “ Blues “ è un’epifania, una discesa in un mondo che vive accanto a noi ma che non vediamo perché non riusciamo ad arrivare a patti con la nostra follai collettiva. Alberto lo ha fatto e ha messo in musica il suo viaggio, che è molto interessante e da compiere assolutamente anche noi, in un sentiero nuovo e pieno di sorprese.
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