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Primavera Sound 2013 Report

#bestfestivalever. In questo spavaldo hashtag si racchiude la summa di tutto il Primavera Sound 2013, il tredicesimo organizzato dalla banda di Gabi Ruiz e soci, e forse il più memorabile che il Parc del Fòrum abbia mai ospitato.

Primavera Sound 2013 Report

Memorabile in termini di numeri, con oltre 170 mila presenze in tre giorni. In termini di cambio di sponsor principale (il passaggio da San Miguel ad Heineken, con evidente vantaggio per le casse del festival). Ma in particolare nel fatto che sia il gran Galà di presentazione in streaming live mondiale che la campagna di marketing successiva abbiano creato una aspettativa a dir poco virale intorno all’evento. Più degli anni scorsi, se possibile, il Primavera Sound era “il festival in cui bisognava andare”.

Per noi, per fortuna, il Primavera Sound rimane ancora una benefica esplosione di suoni distillata in cinque giorni e 230 concerti. Poco ci importa della ruota panoramica plagiata dal Coachella, su cui non saliremo mai. Delle inconsuete temperature autunnali, brillantemente combattute saltando sempre in zona transenna. Delle voci basse dei My Bloody Valentine, che devono essere basse, e se non sapete il perché peggio per voi.

GIOVEDI 23 MAGGIO

Il pop east-coast dei Wild Nothing apre le danze quando ancora il sole è alto. E’ un bell’ascoltare, sebbene i brani eseguiti troppo pedissequamente rispetto ai due album non destino particolari sussulti. Sul palco ATP invece compare la vera sorpresa del giorno: i White Fence. Il progetto solista di Tim Presley, intriso di cavalcate psichedeliche dall’incedere garage, si spinge su territori già esplorati dai conterranei Oh Sees, e grazie ad un songwriting intenso quanto spigoloso riesce ad ammaliare e convincere.

- Primavera Sound 2013 Report

I Tame Impala non lasciano spazio all’immaginazione: un muro di suoni anni ’60 si abbatte sul palco principale, tappeti di synth fanno volare una sezione ritmica a dir poco scioccante: rullate dimezzate aprono come dighe delle cavalcate di delay chitarristici in cui è impossibile non perdersi. Il bassista dei Pond è alla sua prima uscita dopo l’abbandono di Nick Allbrook, ma poco cambia: i brani funzionano molto meglio che da studio, sono più incisivi e i fuzz dilatati delle Rickenbacker la fanno da padrona. Un concerto capolavoro, il migliore del giovedì.
I Dinosaur Jr., anche con Kyle Spence alla batteria, regalano sempre grandi gioie: “Feel the Pain”, “Out There”, e “Freakscene” autorizzano J Mascis a comparire nei dizionari musicali alla voce “Wah-Wah”.

- Primavera Sound 2013 Report

Poco dopo i Deerhunter presentano live il capolavoro lo-fi dell’anno, l’acclamato “Monomania”. Bradford Cox distilla in musica la spirale di disperazione, ossessioni, desideri e conquiste di una creatura di due metri, filiforme al punto di spezzarsi. E’ un pugno allo stomaco, e il coinvolgimento del pubblico è sentito.
I due artisti successivi, Grizzly Bear e Phoenix, non rappresentano alcuna novità per chi già ha avuto la fortuna di apprezzarli. I primi, meravigliosamente soporiferi, ormai suonano più come un’orchestra che come una band, perfettamente inseriti in uno scenario di calde lanterne ondeggianti in sottofondo. Le armonizzazioni di voce che cullano l’intero show sono magistralmente sorrette da un basso “acquoso” e dei timidi quanto efficaci contrappunti di tastiere. Pare che la band di Brooklyn tenda quasi a nascondere propria smisurata classe, senza proporre leader né cadere in ostentazioni, ponendo al centro della scena solo la delicatezza delle proprie composizioni. I Phoenix, d’altro canto, reduci da un album appena sufficiente, riescono a non deludere grazie soprattutto allo sporco lavoro di frontman di Thomas Mars. Il concerto non è certo fallimentare, ma la loro sfortuna è proprio quella di suonare dopo i Grizzly Bear: non si possono decisamente azzardare paragoni.
La serata termina con la pessima performance degli Animal Collective, che due anni fa proprio al Primavera Sound avevano fatto “il concerto”. Oggi invece sono mosci, svogliati, a tratti perfino fastidiosi. Un gran peccato.

VENERDI 24 MAGGIO

E’ inutile negarlo, per buona parte del pubblico il venerdì è il giorno dei Blur. Il concerto che tutti aspettano, gli headliner degli headliners, il live che a Barcellona manca da dieci anni. Nel frattempo, fino alle 01:30, sono tanti gli artisti che deliziano le nostre orecchie. Esclusi gli iniziali Merchandise, i quali presentano brani copiati male dai Killers e di una banalità imbarazzante. Il contorno di voci alla Morrissey e il repertorio di faccette proposte dal cantante chiudono il cerchio di questa superflua esibizione. Kurt Vile invece propone un piacevole set incentrato su “Wakin on a Pretty Daze”, la sua ultima fatica. L’unica pecca è il dover suonare con la luce ancora alta e in uno spazio ancora troppo grande (Heineken stage). Se i Django Django, di bianco vestiti, mostrano una ottima affinità dal vivo presentando il loro acclamato album d’esordio, gli onnipresenti Shellac di Steve Albini appaiono sempre più violenti ed affiatati, con dei suoni al limite della perfezione.
E’ l’ora dei Jesus and Mary Chain che, a sentire i rumors, non fanno nulla per coinvolgere il pubblico (gli hipster della zona vip, almeno). In compenso si limitano a suonare pezzi di storia come “Just Like Honey” con Blinda Butcher dei My Bloody Valentine, “Head On” e “Happy When it Rains”. E a me basta e avanza per trattenere a stento l’emozione. Cosa che non succede poco più tardi, coi Blur, sullo stesso palco.
Damon Albarn, indicando il cielo, saluta il pubblico con un “So Hola to la luna”. Non guardo il dito, e Graham Coxon attacca con “Girls and Boys” quello che sarà il concerto più emozionante dell’ intero festival, per i tanti che hanno passato un’adolescenza legata a doppio filo col britpop. La band londinese alterna sapientemente momenti più movimentati come “Country House” e “Parklife” (purtroppo orfana di Phil Daniels) alle melanconiche “Out of time”, “Tender” e “This is a Low”, in cui momenti di estasi collettiva uniscono il pubblico in un lungo singalong con il quartetto di coristi di colore presente sul palco. “Coffe and TV” esalta la grazia chitarristica e la flebile voce di Graham Coxon, mentre Albarn si tuffa sulle prime file guardandoci in faccia uno per uno. “Under the Westway” sembra ormai un classico, seppur uscita da non più di un anno, “The Universal” è maestosa e catartica, e nel suo “it really really really happened” fa ridestare dal torpore e realizzare quello che è appena trascorso. I Blur danno tutto ciò che hanno, e in termini di sintonia col pubblico, di presenza scenica, di rilevanza storica dei brani non esiste paragone con alcuna band di questo festival.
Purtroppo perdo i The Knife, che a quanto pare inscenano uno dei migliori spettacoli della serata, e mi dirigo verso i Titus Andronicus. La loro brillante miscela di folk punk, a cavallo tra Pogues, Dropkick Murphys e The Clash, scuote la folla che canta a squarciagola ogni brano fino alla conclusiva, lacerante “No Future part three”, in cui ci si perde in un lungo “You will always be a loser”.

SABATO 25 MAGGIO

L’ultimo atto del Primavera Sound 2013 si apre con i Melody’s Echo Chamber, band indiepop che suona meno abbottonata che dal cd, convincendo nei momenti più dissonanti e dilatati piuttosto che nelle strofe più prettamente melodiche. Sullo stesso palco l’innamoratissimo canadese Mac Demarco delizia il pubblico con un delicato pop di piena fattura Pavement, salva un ragazzo esagitato dagli spintoni della security, e improvvisa un crowdsurfing su “Togehter” per raggiungere la sua amata Karen in mezzo al pubblico. Fantastico.

- Primavera Sound 2013 Report

Gli Oh sees e i Liars sono i protagonisti del sabato. I californiani, reinventando il garage rock in chiave psichedelica, propongono un altro grandissimo set “fisico” con cori infiniti, sepolcrali, dilatati fino allo spasmo, che li consacrano come una delle migliori rock ‘n’ roll band in circolazione.
I Liars, completamente avvolti nell’oscurità, reinventano il loro ultimo album WIXIW, realizzato per lo più in chiave elettronica, in una sorta di contemplazione minimale del suono, creando il loro spazio in cui far vivere crescere e sviluppare una musica che è e può essere solo loro. L’effetto è oltremodo ipnotico, in particolare in “Flood to Flood”, “N°1 Against the rush”, e nella conclusiva “Broken Witch”, in cui il cantante urla “blood blood blood” per un tempo interminabile.
Concludo la serata con i My Bloody Valentine, sul quale live si è detto tutto e il contrario di tutto. Semplicemente i MBV hanno un muro di suoni impressionante, una poesia rumoristica fantastica, che non tutte le orecchie possono accettare come tale. Citando Picasso, riguardo chi contestava il cubismo: “io non capisco i libri in inglese, ma non per questo affermo che essi non significhino nulla”. Se non capite lo shoegaze c’è sempre il cantautorato, dopotutto.
Mentre cammino per l’ultima volta attraverso il Parc del Fòrum, ormai popolato di soli bicchieri di plastica che riflettono l’alba, capisco che questo Primavera Sound è ormai diventato uno dei migliori festival al mondo. Se veramente amate la musica più delle instagrammate, le transenne più delle ruote panoramiche, le dissonanze indie rock più delle zone vip, vi consiglio di farci un salto. Yes, it really, really really happened.

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