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Club To Club 2013

Io e M. ci troviamo alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Berretti di lana flosci e barbe importanti: questi i ragazzi; le ragazze indossano i berretti di lana flosci ma non le barbe: comunque grande attenzione per i dettagli. Ordinati, su scaffali bianchi, riposano oggetti dal pregevole design, mentre alcune persone portano a spasso dei Macintosh e sono molto teneri nel farlo. Il tutto assomiglia molto all’inferno, non me ne vogliano gli amanti dei berretti flosci: anzi non me ne frega niente.

Giovedì 7 Novembre

Io e M. non ci troviamo in Sandretto per sorseggiare un Gin Tonic a lume di lampade a sospensione, ma ci troviamo in Sandretto per sorseggiare il primo Gin Tonic del Club to Club 2013, giunto alla sua tredicesima edizione con la fama di essere l’unico festival di musica elettronica dal respiro veramente internazionale in Italia o, se vi convince di più, di rivestire un posto d’onore nel calendario degli eventi autunnali in Europa. Ma tant’è. Tant’è che negli anni il Club to Club ha portato a Torino un sacco di producers e djs di statura mondiale (Scuba,Four Tet, Flyng Lotus solo per citarne alcuni), che il festival si svolge durante la settimana dell’arte contemporanea parallelamente ad Artissima, che Torino è Torino e sa essere molto bella d’autunno.
La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è il quartier generale dell’evento. Le serate cominciano da qui con interviste e live. Di Holly Herndon il primo live che ascoltiamo nell’auditorium. Capelli rossi, profilo da spigolatrice, la ragazza viene dal Tennessee ed è per ora ferma all’album di debutto “Movement”, uscito nel novembre scorso. Propone un’elettronica molto ritmata che risente dei suoi trascorsi da dj nella scena berlinese, ma allo stesso tempo la musica risulta sfuggente e vagamente esoterica grazie all’utilizzo della voce, supereffettata e frammentata. Il suo live, combinato con dei visuals assolutamente folli, inaugura una serie di performance cerebrali che continueranno per tutto l’arco del festival minando la mia già labile condizione psichica. La ragazza fa il suo e col senno di poi offre una delle migliori performance dei pomeriggi in Sandretto: ed è tutto dire (non in bene).
Salutati i berretti flosci e gli iphone ci dirigiamo verso il Teatro Carignano, in centro, dove suonerà James Holden. Si unisce a noi Robottino, il quale ci spiega dell’influenza di Holden in una certa scena dell’elettronica degli ultimi anni, alla Nathan Fake, tanto per citare un nome. Sua è anche la traccia scelta per il teaser dell’evento, Renata. Comunque io non l’ho mai ascoltato e sono curioso, così curioso che il mio unico pensiero prima di entrare è trovare un posto dove orinare; così, giusto perché voi lo sappiate, intorno al Museo Egizio non si trova granché.
Il live comincia in ritardo, ma ci sono le premesse per un ottimo show: ascoltare musica elettronica nel teatro dove Vittorio Alfieri metteva in scena le sue tragedie non è cosa da tutti i giorni. Finalmente, il leggero James Holden si presenta sul palco, le luci si spengono e The Caterpillar’s intervention inizia a rullare. Io mi chiedo se James Holden conosca l’Alfieri, ma poi mi pento della domanda osservando la lunghezza della camicia che indossa: gli arriva tipo ai polpacci: è proprio uno da Sandretto. Una leggera ovazione sugli arpeggi iniziali di Renata, per il resto calma piatta per una performance vagamente ipnotica. Ci sono momenti felici, altri meno, e guarda caso i momenti felici coincidono con i pezzi più spensierati, comunque non banali, perché le melodie non terminano mai, mutano, si fermano sul più bello, stonano. Momento antropologicamente interessantissimo avviene quando una parte del pubblico tiene il tempo di una traccia con le mani e pare di essere alla sagra del maialetto. Tuttavia mi sembra che il batterista, abile belloccio con cappellino floscio, rubi la scena al producer inglese, che con movenze da rettile armeggia con gli strumenti a disposizione e combina anche qualche casino. In definitiva, Holden fa il suo ma poteva fare di più. Anche Robottino, nostra guida spirituale, non è entusiasta. Ci avviamo quindi verso i cantieri OGR, ultima tappa del nostro primo giorno di club to club, o #Mitoc2c, per fare i fresconi.
Ecco, i cantieri OGR sanno il fatto loro. Ex insediamento industriale nel centro di Torino, le OGR (Officine Grandi Riparazioni) ospitano oggi fiere ed eventi. All’entrata perdo M. e Robottino, per cui entro da solo e, non lo nego, mi scappa un sorrisone. E’ tutto molto poco italiano: la penombra, lo spazio, la musica… c’è profumo di nord Europa. Sul palco suona Dinos Chapman, ma non ci presto molta attenzione perché necessito di adolescenza e Vodka Red Bull, e mi metto a cercare M. e Robottino. Quando li trovo, il live è praticamente concluso.
Dopo ci sono i Factory Floor, band londinese che proprio ora leggo venire accostata ai Joy Division, mica capisco il perché. I Factory Floor possiedono, oltre alla parte elettronica, un batterista e una chitarrista, la quale però non tocca quasi mai lo strumento e si occupa più spesso di campioni e voce. Per quello che ricordo mi piacciono e il loro live è molto potente e cupo. Non vedo tutto lo show. Non posso. Io e M. siamo risucchiati nel vortice della bellezza: si trova su un palchetto secondario, un palchetto montato a scopi pubblicitari su cui ballano individui sicuramente sottopagati. La cosa notevole è che la musica non giunge che da lontano, e i ballerini ballano praticamente sul nulla. Tra questi, una bionda. Non possiamo evitare di avvicinarci e di chiederle cosa prova a fare quello che sta facendo. Lei ci risponde che non prova niente, facendolo. Ho ascoltato musica cerebrale per tutta la giornata e ora mi tocca subire queste parole crudeli: il mio sistema psichico, davvero, non può reggere tre giorni di simili pressioni.
Andiamo a dormire dopo un kebab molto umano che riporta la quiete.

Venerdi 8 Novembre

Mi trovo in Sandretto da solo. Gente giusta ovunque. Un fotografo onnipresente che assomiglia a Bollani fotografa una fila bottiglie di vodka dietro al bancone del bar: a quanto pare lui riesce a vedere la bellezza nella ripetitività: un’operazione pop, me la spiego così. Comunque mi bevo una birra media e mi avvio ad ascoltare l’intervista a Bobby Krlic, ovvero Haxan Cloak, uscito nel 2013 con il suo secondo lavoro, “Excavation”. Durante l’intervista si parla soprattutto dello stacco tra il nuovo disco e il precedente, di quanto sia tutto più cupo e di come la morte ci prenderà tutti, prima o poi. Non a caso, sulla copertina di “Excavation” un cappio danza su uno sfondo nero e fumoso. La seconda giornata di festival si preannuncia anch’essa molto rilassante.
Dopo l’intervista cominciano i live. Arriva l’italiano Dracula Lewis (Simone Trabucchi) che offre uno show bello tirato e urla al microfono frasi molto angoscianti. Io dico a M., arrivato a metà dello show, che lo vedrei bene a fare delle basi per Snoop Dogg: lui mi redarguisce e cita nomi di gruppi che non conosco. Io me ne sto. Dracula Lewis esce di scena con parecchia personalità, spegnendo tutto e uscendo dalla sala come solo le vere rockstar sanno fare. Qui invito il Blasco a prendere appunti.
E’ il turno di Lee Gamble, inglese, e il pubblico è diviso: c’è chi si addormenta, chi si sdraia sulle scale ragionando sull’universo, chi, e sono i berretti flosci, sceglie la foto migliore da postare su Instagram. Personalmente, trovo il live interessante. Gamble fa un lavoro enorme sul suono trattandolo come un embrione che nasce, cresce, si sviluppa, e sì che alcune parte sono martellate sui cosiddetti, ma la cavalcata techno sul finale è puro piacere: sono un grande amante delle cavalcate techno, anche quando non c’entrano nulla con la mezz’ora precedente.
Usciamo da Sandretto e avvistiamo Robottino in una pizzeria. Io e M. ci uniamo a lui e a M. viene portata una delle marinare più povere della storia dell’umanità. E’ una pizza molto triste, così come la mia media e il caffè finale. Il tutto c’è da dire che è compensato dalla grande simpatia del personale, amante delle gag tipo quando il cameriere porta la marinara a M. ma in realtà è la mia pizza con wurstel e quindi si crea questa situazione esilarante.
I Cantieri OGR ci attendono anche stanotte, e si inizia a fare sul serio. Quando arriviamo sta suonando Haxan Cloak; M., che l’ha già ascoltato l’anno scorso, conferma il cambiamento di cui si parlava nell’intervista. Neanche il tempo di un cocktail blu molto cattivo che lo show è già finito.
Sul palco compaiono due batterie. Gli italiani Ninos du Brasil sono pronti a farci muovere le natiche al ritmo della loro samba elettronica, definizione orribile ma che rende l’idea. Lo spettacolo è genuino, a tratti selvaggio, e il pubblico sembra apprezzare, specialmente quello femminile: belli e bravi è il commento più abusato. Io vengo realmente coinvolto soltanto quando la frequenza degli strobo supera il livello di sopportabilità. Dietro alle due ombre imparruccate un video di Italia-Brasile, delle cascate e delle foreste sudamericane. A un certo punto uno dei due (o Nico Vascellari o Riccardo Mazza) scende tra la folla agitando delle maracas e si becca un cocainomane esaltato che gli salta sulle spalle: ben gli sta. M. mi confessa che gli piacciono molto perché sembrano proprio schiavi del ritmo.
I Ninos Du Brasil lasciano il palco e il livello di ferormoni nell’aria si abbassa di parecchio, anche perché dietro la consolle sale James Holden, il rettile, colui che stanotte veste un maglione argentato con strass. Il suo djset me lo perdo perché giro a vuoto per i cantieri cercando di perdermi: non ci riesco.
Finalmente è il momento di Jon Hopkins, il pezzo grosso del venerdì. Il suo ultimo album, “Immunity”, non mi ha esaltato, ma sono curioso di ascoltare il suo live. Ho un ottimo presentimento. Finisce dopo un’oretta.
L’Iroshima Mon Amour è pieno. Ci andiamo in taxi perché facciamo un po’ i signori: io, M. e Robottino. In coda comincio ad alterarmi perché l’italianità pianta il suo vessillo sul terreno e lo fa sventolare alto nella notte torinese. E’ tutto uno spintone, e una volta entrati la storia non cambia: in pista la gente fa avanti e indietro continuamente, e io dico, ritagliati il tuo metro quadrato e balla!, ma no, siamo in Italia e qui si amano i balli di gruppo. C’è l’immancabile trio di ragazzi ubriachi che si danno continuamente pacche sulle spalle, c’è la coppia di innamorati che nella foga di baciarsi crea un vuoto intorno del diametro di una decina di metri, ci sono quelli che fanno il trenino per raggiungere le transenne. Io e Robottino siamo concordi sull’andarcene, M. meno ma lo si convince. Torniamo a casa.

Ah, il live di Jon Hopkins. Una bomba, davvero. La prima parte piacevole, compresa la notevole Open Eye Signal, poi Hopkins ha spinto sull’acceleratore e con una serie di dropponi infiniti ha piegato il pubblico a suo favore, divertendolo e strappando numerosi sorrisi. Poche volte ho visto una partecipazione simile. La gente, nei momenti più riusciti, era folle e si voleva molto bene. Bello il momento Breathe this Air e i visuals annessi. IL LIVE del club to club 2013.

Sabato 9 Novembre

Mi trovo in Sandretto con M., e Sandretto mi tradisce: non solo non possono farmi un Vodka Sour, ma quando ripiego sul Gin Tonic il barman mi dice: “tanto sono praticamente identici.” Eh no, Sandretto, caduta di stile. Mentre beviamo, M. capta una frase molto significativa pronunciata da una donna in total black: “Che bella l’ingenuità di un mondo dove gli hipsters non sanno di esserlo”, o forse era: “Che bella l’ingenuità di un mondo che non conosce la parola hipster”. Fatto sta che io e M. rimaniamo molto impressionati da quel filosofare e andiamo ad ascoltare la cosa più hipster della storia con animo turbato: Kode9 che collabora con lo IED di Torino. In parole spicciole, gli studenti coinvolti hanno creato una colonna sonora per 5 luoghi dell’anima, ascoltabile soltanto nei luoghi stessi attraverso un QR code sapientemente posizionato, o almeno credo. Kode9 ha insistito che queste colonne sonore fossero create soltanto con suoni registrati in loco, poi liberamente modificabili a computer. Il materiale raccolto è stato poi inviato al producer di Glasgow che ne ha tratto una personale visione di Torino: la ascoltiamo in anteprima durante l’intervista. A me dice poco, ma M. insiste sul fatto che pur con quel poco che aveva a disposizione Kode9 abbia creato un pezzo molto personale, alla Kode9 per intenderci: tutto ciò ha un senso. C’è ancora tempo per ascoltare una domanda maliziosetta di una ragazza su Burial che mette in imbarazzo il tenero producer, poi tutti fuori per una pausa sigaretta.
E’ ora il turno di Forest Swords, ovvero Matthew Barnes, che ha quest’anno prodotto il suo primo full length, “Engravings”, dopo ben 3 anni di silenzio dal suo ultimo ep. Forest Swords ci culla con arpeggi e giri di basso molto alla mano immersi in un mare di suggestioni drone e trip-hop. Il suo “Dagger Paths” mi era piaciuto molto, e apprezzo anche il live, forse il migliore in Sandretto. I visuals utilizzati, poi, sono estremamente calzanti (ho un debole per il binomio elettronica-video in bianco e nero).
Usciamo soddisfatti e salutiamo il Sandretto con un po’ di nostalgia. M. tiene sottobraccio due vinili di Forest Swords freschi d’acquisto, il che compensa in parte l’assenza del cappellino floscio.
Raccattiamo per strada lo Sba e mangiamo una pizza al tavolo di Robottino, ormai una certezza. Metà de Gli Altri parla del tour de Gli Altri, io bevo una media rossa che non avevo ordinato, ma di ritorno dal bagno me la trovo davanti e non so dire di no.

E’ sabato sera. Sono le 21.00 circa. Il Club to Club prepara il suo gran finale al Lingotto Fiere. L’entrata poco trionfale che ci vede protagonisti ha il djset di Jhon Talabot come sottofondo. Si scatena un dibattito, in realtà già cominciato in metropolitana, su dove vada piazzato l’accento in Talabot. Le nostre certezze erano crollate in Sandretto cogliendo un Talabòt: dall’alto del nostro Tàlabot, non potevamo che sfottere quell’estrema forma di presunzione. In metropolitana scopriamo però che Talabot non è inglese, bensì spagnolo, e allora perché non Talàbot? Ascoltiamo il djset disturbati da questi pensieri; djset dignitoso, tra l’altro.
Dopo Talaboh? tocca ai Fuck Buttons, reduci da uno “Slow Focus” piaciuto un po’ a tutti, me compreso. Che dire? Partono alla grande, con una Brainfreeze atomica. Le loro sagome vengono proiettate sullo schermo alle loro spalle su sfondi multicolore, su costiere battute dall’oceano. Tutto molto bello, ma… mi ritrovo fuori a parlare di Silvio d’Arzo e di Dostoevskij con lo Sba. Com’è potuto succedere, dopo quell’inizio esaltante? E’ che i Fuck Buttons calano alla distanza: o forse abbiamo soltanto voglia, dopo due giorni di live psicologicamente probanti, di battere il piede su casse dritte e bassi ignoranti. E’ quello che non succede durante il successivo live di Four Tet, secondo nome grosso della serata. Ora sono da solo, ho perso tutti, ma nella folla trovo gente conosciuta e mi ricordo un dialogo andato più o meno così: “Io voglio roba da ballare”, e io: “Lo so, fa l’intellettuale”. Giuro che rispondo così, se solo M. mi avesse sentito… fortunatamente, M. è scomparso da tempo e le mie eresie rimangono tra pochi intimi. Girovago per il Lingotto; di tanto in tanto vado nella Sala Rossa a farmi una sauna: stanno suonando Sherwood & Pinch, ne esco con un vago senso di malessere. Mi gioco l’ultimo cocktail, un vodka orange molto orange, poi mi perdo Diamond Version, o almeno credo perché non saprei proprio raccontare cosa combinano. Ricordo quindi di essermi ritagliato un metro di parete in Sala Rossa durante il djset di Kode9: la manda bella negra, questo sì, e mi tolgo la giacca per la prima volta in tre giorni perché lì dentro è un forno. Esco dopo una mezz’oretta, rinfrancato.
I Modeselektor salgono sul palco, ed è subito techno. In realtà non proprio, ma l’effetto è quello. Sono così tamarri che il povero Apparat, che doveva suonare con loro, si sarà tappato le orecchie nel suo appartamento in Prenzlauer Berg. Ma noi, pubblico di poche pretese, siamo molto felici. I Modeselektor spingono un djset di un’ignoranza squisita, con tanto di urla al microfono – attenzione!- non effettate, ma col solo scopo di incitare la folla. Si sono preparati le frasi in italiano, non ci voglio credere! Su Blue Clouds, unico momento vagamente intimista, mi scende quasi la lacrimuccia. I due djs berlinesi possiedono quell’ingenuità e quell’amore per le cose semplici tipiche di una certa Germania popolare: da Oktoberfest o da capodanno alla Brandeburger Tor, per intenderci. Mi fanno tenerezza e mi fanno ballare, non mi basta altro.
L’incanto prosegue con Julio Bashmore, vero mattatore della serata. Tutti sono ormai sobriamente andati (alle 3.00 hanno smesso di servire alcolici) e la mia schiena chiede pietà. Mi accascio contro una parete, ma quando ascolto il Julione mandare Battle for Middle You mi fiondo in mezzo alla pista e scuoto il giaccone da una parte e dall’altra. Non mi schiodo più da lì. Trovo quasi la forza di alzare le mani, però desisto quasi subito. Davanti a me c’è un gruppetto della Torino bene, molto ben vestiti, molto eleganti – lo dico perché magari a qualcuno interessa – mentre alla mia destra una tipa mi si avvicina chiedendomi qualcosa in inglese. Forse è un’avance, ma me la gioco molto male e lei si allontana tutta imbronciata. Quando Julio Bashmore lascia la consolle, per me il Club to Club 2013 è terminato. Vado fuori a prendere aria. Ben UFO è l’ultimo a suonare nel Padiglione 1, Andy Stott nella Sala Rossa.
Si fanno le 6.00. Le luci si accendono, la gente sfolla, comincia la caccia ai panini con la salamella. Rivedo M. Mi informa che Andy Stott sapeva il fatto suo, l’ha visto dalle transenne accanto alla ragazza maliziosa che chiede di Burial a Kode9. Io mi fido, che altro posso fare?
Quando si balla e c’è del sentimento nell’aria, tutto sa il fatto suo.

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