di Bob Accio
“Nella seconda parte del racconto sui mondi alternativi, Bob trova una conclusione all’apertura di Grazia, travolgendo con un pizzico di fantasia la vicenda di Yrsa e Hrolf.”
Dove sarà Hrolf?
La domanda tempestò la mente di Yrsa, poverina, giunse al villaggio che vedeva dalla collina come un vagabondo che arriva in un posto sconosciuto di notte, senza saper dove sistemarsi, che lingua parlare, a chi rivolgersi; ma poi tira su col naso e smette di frignare, si accamperà pure da qualche parte, se parte possono essere considerate le strambe cose mai viste coi suoi occhioni celestialmente caleidoscopici.
Sembra di stare nel mondo di Spongebob, architetture smussate, alberi che sembrano antenne, strade panoramiche, oggetti volanti a due metri sopra il proprio capo, esse somigliano, ma lo sono, è evidente, a pesci di ogni specie che sviluppano orizzontalmente un traffico sconcertante; tutto si muove spedito e a scatti, come un filmato urbanistico mandato ad alta velocità: è il caso di dire che sono pesci fuor d’acqua, malgrado sia lei ad esserlo.
“Mi manca la nebbia, almeno sotto quella il mondo era piccolo, pareva una coperta protettiva che ammansiva anche i pensieri più tetri; qui è tutt’altra cosa, non c’è edificio che possa esser ricondotto a sembianze di abitazione: vi sono lastre metalliche, salgono all’insù tappezzando geometrie cittadine ed una moltitudine di specchi sono ad esse affissi, traversando i quali i pesci volanti intersecano le lastre-pareti sbucando altrove.
In tale dedalo sovraffollato non so che fine possa fare una strana creatura come me, quattro gambe e quattro braccia con tant’occhi tutt’attorno al capo, la mia preziosa corona di perle.
Però, questi pesci quanto sono brutti! Voglio tornare a casa, rivoglio il mio vecchio solido divano e le certezze brutte di un tempo, che se pure stonato, ne scandivano il ritmico grigiore. Piango, ripiango, sono la solita mammoletta che non ha mai avuto il coraggio di rompere in testa a mio marito un piatto – orrenda reprimenda”.
– Ciao, mostro! Hey, mi senti o sei sordo, mostro? – Una triglia ben strigliata si rivolse a Yrsa infastidita di non ricevere attenzione.
– Uh! Scusa triglia, scusa. Sono triste e sola e non ho idea di dove sia, sono fuggita dalle nebbie del mio mondo e qui approdata, e, ahimé, mi sento diversa tra i diversi.
– Cosa intendi quando mi chiami triglia? Io sono una pecora?
– Ah, beh, qui è tutto un caos, i pesci non vivono nell’acqua ed hanno nomi di specie animali bisterrestri. Non mi ci raccapezzo proprio.
– Ascolta mostro, io sono Pecora 1234 e ho capito subito che tu non sei una pecora, perché brutti come te non ne ho mai visti di mostri, neppure, figurati, nell’abbecedario spaziale, eccolo, dacci una multibinocolata dentro e ti renderai conto di qualcosa che dici di non capire.
– D’accordo. pecora 1234, ma sappi che io sono una disumana, e vengo da un posto molto in alto e lontano da qui, sono una donna, un genere femminile atto a procreare, nel mio ex pianeta, e per quanto ne so tu sei una triglia, un boccheggiante animaletto di mare che mangiamo con molto piacere, su da noi.
– Heyyy, disumana che non sei altra, noi pecore ne facciamo arrosticini di voi, guarda, guarda bene nell’abbecedario spaziale se vuoi progredire, mostro.
– Uff, e che maniere! E va be’, mollami ‘sto coso spaziale. – Yrsa guardò dentro il binoculare con tutte le pupille che aveva attorno al capo saziando vista e intelletto, il micronimico processore l’aveva edotta come mai lo fu accanto al marito e riconobbe ora di essere un mostro di cui i pesciliani ne van matti, alla griglia!, quindi per prima cosa avrebbe dovuto cambiare aspetto per poter sopravvivere.
La triglia-pecora era di buon cuore, quel linguaggio universale che oltrepassa persino i gusti alimentari (ma forse ché a lei gli arrosticini di mostro non erano mai piaciuti?) e consolidarono la simpatica amicizia; due estranei ora si ritrovavano complici.
Pecora 1234 travestì Yrsa da capodoglio tramite un programma ottico a basse frequenze che regalava una nuova immagine di sé.
In questo strano posto chiamato Magia, si poteva questo e ben altro, a patto, come le raccontava la giovane triglia-pecora, di non nominare mai il nome che sovrastava il loro credo, il Dio Dinosauro, perché, casomai le fosse scappato di pronunciarne il nome, sarebbe stata fatta arrosto perdendo la sua copertura ottica.
Pecora 1234 la portò a spasso per Magia e si misero in cerca di Hrolf…
Ma la storia della ricerca si esaurì presto, accidenti, Hrolf, che era stato tramutato in pesce pagliaccio, aveva pronunciato per sfida e sottovoce quel nome, mentre provvedeva ai bisogni corporali nel bisogneticogenetico spaziale, e aveva di colpo riacquistato immagine e odore autentici, risultando all’olfatto e alla vista dei pesciliani desiderabile di essere arrostito.
Uno scaltro imprenditore-scienziato-cacciatore lo acciuffò cucinandoselo in laboratorio, la ricetta molecolare di Hrolf fu moltiplicata in serie grazie al riproduttore alimentare, fornendo a go-gò scatolette dove le carni saporite e ben arrostite di Hrolf giacevano succulente affollando gli automatici di cibo magico.
Tristemente Yrsa dovette assuefarsi alla tragedia, aveva appena visto una pubblicità, quella è uguale ovunque, un manifesto ottico-pluridimensionale-olfattivo il quale ospitava su una lastra-parete gigante la faccia, altrettanto gigante, di Hrolf a capo di un arrosticino, o forse più, fumante e bollente!
Mio caro Hrolf, – si rammaricò Yrsa – ma perché non ti sei fatto i cazzi tuoi?
FIN
Illustrazione di Paola Acciarino