Hekátē – Μαύρη Tρύπα | Black Hole
Le Hekátē sono un quartetto greco, nato nel 2018, quando la pesantezza e le difficoltà della vita nella capitale ha indirizzato la loro rabbia interiore verso la creazione della band. Dopo il debutto del 2020 “Days of Wrath” tornano oggi con il loro secondo album “Black Hole”.
Un album malinconico, triste ma orgoglioso, che sposa un approccio fortemente influenzato dal post punk più orientato verso sonorità quasi dark, da vedere come un tentativo di creare un ponte con il passato che, oltre a guardare alla componente sonora, riveda e ricontestualizzi le tematiche sociali e politiche del tempo. Le Hekátē sanno perfettamente di non esser qui per diventare le next big thing della scena mediterranea, e la loro scelta DIY va esattamente in quella direzione, ma per gridare forte la loro rabbia. Chiedono solo di essere ascoltate, consapevoli di non aver creato nulla di nuovo, ma solo di dover dare voce alla loro esigenza di ribellione.
Il disco è infatti pervaso di di quella spontanea rabbia anarco punk che guarda alla comunicazione e non all’estetica, che sposa i testi ancor prima e ancor meglio che la musica. Antifasciste a anticapitaliste le quattro ateniesi si rendono perfettamente conto di essere precipitate in quel buco nero che hanno scelto come titolo dell’album, ma sono al contempo, ancora altrettanto fiere di portare dentro quella rabbia che dal primo disco le spinge a continuare in questa loro lotta. Ci raccontano un presente, che nega il futuro e che sembra di aver dimenticato il passato.
Un presente descritto dal loro post punk politicamente impegnato.
Un presente che fagocita tutto e tutti, in nome di un individualismo che non conosce freni. Un disco che aiuta a combattere la dilaniante alienazione del quotidiano. E che lo fa in modo spontaneo, senza costrizioni e costruzioni.
Pixel Grip – Percepticide: The Death of Reality
Sono passati quattro anni da “Arena”, album che al tempo, in molti considerarono (forse giustamente) come l’apice della carriera dei Pixel Grip. Quattro anni che si sono dissolti in un attimo, il tempo di posizionarsi comodi e premere play sul lettore, e iniziare a godere del loro nuovo album, uscito, ad oggi, soltanto in versione digitale autoprodotta. Tutto quello che avevamo pensato di “Arena” svanisce. “Percepticide: The Death of Reality” va oltre ogni nostra aspettativa.
Il trio statunitense capitanato da Rita Lukea spazza via tutto sin dai primissimi minuti. Il disco, che racconta (autobiograficamente) la rinascita post traumatica, mette subito in chiaro le cose. Dodici tracce di un oscuro mix tra darkwave, synthpop e postpunk che trasuda rabbia e non si vergogna di mettersi a nudo. Un disco “crudo”, volutamente molto poco sofisticato, in modo che possa arrivare diretto, senza perdersi per strada, che se a tratti strizza l’occhio ai dancefloor, alla lunga rivela la sua natura elettronica al servizio del messaggio.
Rita Lukea non ha intenzione di perdersi in dettagli, va diretta al punto, senza risparmiare nessuno, vomita rabbia, mentre “i corvi banchettano sulle sue emozioni più intime”.
E lo fa grazie ad un album multisfaccettato che si orienta in una molteplicità di direzioni, con perizia, ma senza sceglierne una in particolare, restando fedele all’idea di base, quella di trascinarci a fondo, in ogni modo possibile.
“Percepticide: The Death of Reality” è un disco accattivante, ipnotico, martellante, che riesce ad infiammare l’ascolto con soluzioni sempre diverse, ma sempre e comunque a fuoco, molto ben prodotto, ficcante e, nonostante tutte le sue divagazioni, assolutamente omogeneo. Un album notturno, acido e penetrante che rivela una grande carica erotica. Da ascoltare a volumi adeguati.
Tavare – Too Small To Be So High
Difficile tenere il conto delle uscite di Aidan Baker. Ammetto di seguirlo principalmente per i Nadja, in modo da sgombrare il campo da tutta la follia di dover/voler ricorrerlo in tutti i suoi progetti paralleli.
Mi limito all’essenziale, forte anche del fatto che comunque, anche coi Nadja riesce a tenere medie elevatissime, che si aggirano sui due dischi all’anno. Accompagnato in questa occasione da Angela Munoz Martinez degli Hypnodrone Ensemble alla batteria, e al basso e voce da Tristen Bakker delle Vrouw! Baker mostra ancora una volta tutta la sua qualità.
L’album è pervaso da una calma apparente, armonicamente sognante che deve molto alla forma canzone rispetto alla maggior parte delle evoluzioni sonore di Baker del passato, e si caratterizza per la sua emotività più che per l’impatto. Minimale ma sempre ricchissimo di spunti “Too Small To Be So High” scivola via lentamente, ma dolcemente, invitandoci a seguirlo nel suo avvolgente percorso di ricerca, volto alla comunicazione più che alla sperimentazione.
Un album malinconico, ma da accettare come il miglior complimento possibile. Una raccolta di delicate istantanee da riguardare tutte le volte che il giorno volge alla sera, e il calore della notte si affaccia dietro i vetri, mentre tutto intorno si accendono le luci tenui che ci accompagneranno nel sonno.
Un album da gustare come se fosse un liquore delicato, di quelli da tenere in bocca a lungo, per poterne apprezzare tutte le proprietà. Un disco di cui, anche se non abbiamo forse il coraggio di ammetterlo, avevamo tutti bisogno, anche solo per riconciliarci con il silenzio, dopo tanto rumore.
Weeping Sores – The Convalescences Agonies
Dopo i Sarmat, restiamo ancora sulla I,Voidhanger Records, e andiamo a vedere che cosa ci presentano i Weeping Sores, duo statunitense di NY, che torna dopo sei anni di silenzio.
Ancora una volta accompagnati dal violino di Gina Hendrika Eygenhuysen, stavolta affiancata al violoncello da Annie Blythe, i due Weeping Sores non si fanno pregare per mettere in mostra tutta la loro furia metal.
Il loro doom guarda alla sostanza più che all’estetica, nonostante gli archi, e fa capire sin da subito quella che sarà la direzione dell’album, concepito concettualmente intorno alla sofferenza derivante dal dolore cronico che finisce per trasformare non solo il corpo ma anche la mente. Un album che non guarda alla guarigione e non si caratterizza per i suoi buoni sentimenti, e che soprattutto non si fa problemi a mostrare tutto il dolore che pulsa ancora dentro e che ha forse trovato il modo per uscir fuori e deflagrare. Forse un passo indietro rispetto alla media delle uscite di casa I,Voidhanger ma sicuramente un disco da tenere in considerazione.
L’album sembra volerci indirizzare verso una deriva che guarda più al metal che non alle parti orchestrali, strada che, a nostro avviso, alla lunga, non porta da nessuna parte, ma che, come detto più volte, accontenta il fan medio che compra i dischi.
Detto questo, un album di questa portata non ha punti deboli, almeno apparentemente, suona esattamente nell’unico modo in cui dovrebbe, ed è prodotto in maniera sublime. Non c’è nulla che non vada. Resta, alla fine l’amaro in bocca per come avrebbe potuto essere, date la capacità del duo.
WITCH – Sogolo
Graditissimo ritorno quello delle icone dello Zamrock WITCH (We Intend To Cause Havoc). “Sogolo” è il loro ultimissimo album, uscito nella prima parte dell’anno.
Detto, per i neofiti, che lo “zamrock” è da intendersi come la fusione tra il rock psichedelico e il garage afrorock dello Zambia degli anni ’70, e che i WITCH furono la prima band zambiana a registrare e pubblicare un album commerciale, veniamo a “Sogolo”, album registrato grazie alla nuova generazione di musicisti zambiani. Della formazione originale sono infatti rimasti solo il frontman Emanyeo “Jagari” Chanda, e il tastierista Patrick Mwondela.
Il sound è quello che li ha sempre contraddistinti, quella miscela di afro funky che oggi si colora di soul e R&B grazie all’arrivo delle due cantanti Theresa Ng’Ambi e Hanna Tembo, in grado di conquistare e travolgere anche il metallaro più oltranzista e ottuso. Le nuove leve mostrano immediatamente, non solo di aver imparato la lezione e di sapersi districare a loro agio nei ritmi trascinanti della band, ma anche di saperlo fare con grande perizia tecnico esecutiva.
L’album segue quello del 2023 che ne ha sancito a tutti gli effetti il ritorno in grande stile, e si pone l’obiettivo di riportare la band agli antichi fasti, attraverso un riconstestualizzazione odierna che non può non tener conto delle tecnologie e delle tendenze attuali.
Quello che non manca è però il richiamo, netto e immediatamente identificabile, al marchio di fabbrica che li ha resi celebri. Detto questo, lasciamo stare i discorsi e prepariamoci a ballare fino a notte fonda intorno al fuoco.










