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Recensione : Osees – Abomination revealed at last

Questo è il mood, incazzato e pugnace, che pervade lo spirito di "Abomination revealed at last", ventinovesimo studio album degli statunitensi Osees, guidato dal prolifico talento di John Dwyer,

Oggi tutto sta andando a puttane, l’odio prevale sull’amore, sono tempi di merda che offrono numerosi stimoli agli artisti per creare e denunciare, il genere umano dimentica troppo facilmente la sua umanità: l’empatia viene scambiata per debolezza e “buonismo” dalle élites capitaliste che hanno fatto egemonia tra l’opinione pubblica, milioni di persone costrette, sotto coercizione, ad abbandonare le proprie terre, i propri cari e le proprie case perché vittime di genocidi “in diretta streaming” pianificati da decenni da colonialisti suprematisti che, sulla base di profezie religiose, credono di ritenersi onnipotenti e al di sopra di ogni giudizio. La paura e l’avidità sono una piovra che ha affondato i propri insanguinati tentacoli su ogni aspetto della vita. Sappiamo chi sono gli stronzi che stanno avvelenando un intero pianeta, c’è la rabbia che porta a sfidarli a colpi di note e musica ostica per le loro orecchie foderate di armi e soldi, fino a fargli riconoscere l’abominio che stanno commettendo, perché la gente impari a opporsi all’oppressore e mandare a fanculo i fascisti guerrafondai e i loro sostenitori (sbirraglia inclusa).
 
Questo è il mood, incazzato e pugnace, che pervade lo spirito di “Abomination revealed at last“, ventinovesimo studio album degli statunitensi Osees, il camaleontico progetto – con varie declinazioni nel moniker – guidato dal prolifico talento di John Dwyer, factotum del combo e frontman polistrumentista dotato di prodigiosa creatività artistica. Questo nuovo Lp, uscito a inizio mese su Deathgod/Castle Face records, arriva a un solo anno di distanza da “SORCS 80” (e sua relativa versione dal vivo) ed è caratterizzato da una presa di coscienza chiara e netta di Dwyer (alla voce, chitarra e synth) e sodali (Tim Hellman al basso, Dan Rincon e Paul Quattrone alla batteria, e Tomas Dolas alla chitarra, tastiere e sampling) sulle brutture che attanagliano il mondo di oggi, afflitto da guerre, collasso ambientale, violenze di massa autorizzate dalle “istituzioni democratiche”, tecnocrazia in avanzamento, diseguaglianze sempre più crescenti e marcate tra le classi sociali, web e social media gestiti da proprietari multimiliardari che plasmano e manipolano i cervelli di centinaia di milioni di persone, spingendo le masse a disunirsi invece di fare comunità (se non virtuale) con la strategia del “divide et impera” sempre efficace, con lo scopo di tenerle sedate e, allo stesso tempo, sfiduciate, proiettandole verso un individualismo apatico autodistruttivo (la narrazione secondo cui se stai male e sei nella merda, la colpa non è dei padroni, ma del povero e dello straniero immigrato che “ti ruba il lavoro”, purtroppo, funziona ancora, è il “capolavoro” del capitalismo) e altre piaghe.
Già dalla copertina dell’opera – realizzata da Tetsunori Tawaraya– si delinea la voglia dell’ensemble di scatenare, attraverso i dodici brani del full length, un attacco ipnotico, maniacale e propulsivo ai sensi, come una sorta di colonna sonora appropriata ai giorni di sangue e ingiustizie che stanno flagellando gran parte del nostro pianeta. E’, infatti, un caotico calderone electro/punk (non che i nostri, in passato, non ci abbiano già abituati alle sperimentazioni miscelate in uno strambo pot-pourri che abbracciava musica elettronica, metal, punk/hardcore, psichedelia, prog. rock, krautrock e altre bizzarrie) a permeare l’anima di  Abomination revealed at last“, composizioni volutamente indigeste e spigolose che ben rendono l’idea di frustrazione e disprezzo provate dai nostri per tutto ciò che li (e ci) circonda.
 
Assalti all’arma bianca synth/punk presenti sin dall’opener “Abomination” e la successiva “Sneaker“, tra sfuriate al limite dell’hardcore punk (che ricompaiono nelle fulminee “Ashes 1” e “Ashes 2” e la sferragliante “Coffin wax“) e paranoie DEVOluzionistiche; il garage punk di “God’s guts” e “Protection” e il rock ‘n’ roll rapido e agitato di “Glass window” si scontrano con momenti più eleborati (“Infected chrome“, che si riaggancia alle sonorità di Lp del precedente decennio come “Multilator defeated at last“, e crediamo che il ponte tra i due lavori sia voluto; “Glue” è una sarabanda electro-noise, “Fight simulator” parte sparata e schizzatissima per poi rallentare leggermente a metà pezzo e trascinarsi verso la fine con assoli chitarristici, e la conclusiva “Glitter-shot” “addolcisce” giusto un po’ l’atmosfera di urticante urgenza espressiva) ma ugualmente aggressivi e funzionali al disorto amalgama egg punk che pervade tutto il full length.
I californiani confermano di essere animali da palcoscenico e da songwriting inarrestabili, sfornando un disco che cresce e si fa apprezzare ascolto dopo ascolto, e mentre altrove, dalle nostre parti, il popolino viene distratto dai media mainstream che pompano falsi problemi (ad esempio, il piagnisteo dei balneari per gli stabilimenti vuoti, giusto per citarne uno estivo) è un toccasana vedere artisti che non si fanno remore a schierarsi ed esporsi sulle vere emergenze del mondo di oggi in maniera chiara e netta, senza nascondersi né risultare ambigui.

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