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Recensione : OSEES – SORCS 80

Ventottesimo (!!!) album per gli OSEES, la creatura multiforme - con varie declinazioni nel moniker - guidata del prolifico talento di John Dwyer, da sempre anima del progetto e frontman polistrumentista dotato di una creatività artistica preossoché inesauribile.

OSEES – SORCS 80

Ventottesimo (!!!) album per gli OSEES, la creatura multiforme – con varie declinazioni nel moniker – guidata del prolifico talento di John Dwyer, da sempre anima del progetto e frontman polistrumentista dotato di una creatività artistica preossoché inesauribile.

Sorcs 80” ha visto la luce il mese scorso su Castle Face Records (la label di Dwyer) arriva a un solo anno di distanza dalla precedente prova sulla lunga distanza, “Intercepted message” e ha rappresentato una nuova sfida per il factotum (giunto quasi alla soglia delle cinquanta primavere) dell’ensemble californiano: quello di cambiare metodo di scrittura dei brani per registrare un album rock ‘n’ roll senza usare le chitarre (i nostri nascono con influenze punk/hardcore, poi col tempo miscelate in uno strambo pot-pourri con musica elettronica, metal, psichedelia, prog. rock, krautrock e altre bizzarrie, come la scelta di utilizzare due batterie-batteristi, Dan Rincon e Paul Quattrone, a formare una poderosa sezione ritmica insieme al bassista Tim Hellman) rimpiazzando i suoni chitarristici con i sintetizzatori (coadiuvato da Tomas Dolas al sampling).

Una missione che potremmo definire compiuta, perché “Sorcs 80” (descritto dal diretto interessato come un intruglio in cui “i Dexy’s Midnight Runners incontrano Von LMO che incontra i Flesh Eaters che incontrano gli Screamers“) non difetta di adrenalina e aggressività, qualità di cui sono pregne l’opener “Look at the sky” e brani come “Pixelated moon“, “Cochon d’argent“, “Blimp“, “Termination officer“, “Zipper“, nel synth-punk di “Cassius, Brutus & Judas” e “Plastics“, mentre in altri episodi (in particolare “Drug city“) la tavolozza sonica si arricchisce dei contributi di Cansafis Foote e Brad Caulkins con interventi di sax di ispirazione ibrida tra X-Ray Spex e il sound lercio di Steven MacKay su “Fun house” degli Stooges, e qui e là i ritmi primordiali si fanno più intricati e subdoli (in “Also the gorilla…” e “Lear’s ears“, a metà strada tra Jon Spencer e Can) e a condimento della pietanza non può mancare un giro (sintetico) di olio D-EVO (“Earthling” e la conclusiva “Neo-Clone“, quest’ultima rinforzata da un feeling post-punk à la Gang of Four).

John Dywer si conferma come uno dei più fantasiosi e iperattivi funamboli dell’universo garage rock, sfornando ogni anno uno o più album dal 1997 a oggi, reinventando continuamente il progetto (Thee) O(h)SEES e, finché si diletterà nel forgiare dischi ed esperimenti weird ‘n’ fun, renderà felici anche noi: sapevatelo (voi e lui).

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