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Recensione : Bebaloncar – Love to death

Qualche mese fa, in una rubrica, avevamo già presentato i bolognesi Bebaloncar, creatura fondata e forgiata dal frontman, chitarrista e principale songwriter del progetto, Riccardo Scannapieco aka “Scanna”, uno scafato musicista e veterano della scena underground italiana (Primeteens, Ugly Things, Sciacalli) innamorato dei Sixties, e che da qualche anno a questa parte, nel capoluogo emiliano, ha dato vita a questo moniker (il cui nome ha preso spunto dall’attrice serba Desanka “Beba” Loncar) che combina elementi sonori shoegaze, psichedelia, darkwave, dream pop e post-punk con l’utilizzo di strumenti abbastanza inconsueti per il rock ‘n’ roll (come viole, violoncelli, arpe e flauto traverso) in una formula piuttosto ricercata e originale.

Quest’anno Scanna e soci – ovvero Iris Martyr alla chitarra e backing vocals, Fab al basso e la partecipazione di Carlo Altobelli alle percussioni, drum machine e synth – hanno portato a termine una trilogia (ispirata dall’esplorazione dei sentimenti più occulti della psiche umana, in un tormentato viaggio interiore atmosferico oscuro) iniziata nel 2022 con l’uscita dell’Lp di debutto “Suicide lovers“, proseguita con “Diary of a lost girl” lo scorso anno (un concept album ispirato al cinema muto) e culminata nell’anno corrente con “Love to death” (uscito per Rubber Soul Records, Silverdrop Recordings e 1Q84 Tapes).

Come già accaduto nei due long playing precedenti, anche in “Love to death” i nostri trascinano l’ascoltatore in un vortice esistenziale di desolazione (come il monumento funerario ritratto in copertina) sonicamente impregnato da fragranze wave lisergiche alla Velvet Underground/Jesus and Mary Chain/Galaxie 500/Spacemen 3. Un dark folk intrippato con l’ago di “ero” in vena, che evoca immaginari torbidi tipo i vicoli bui e malfamati della New York pre-gentrificazione/turistificazione, tra spacciatori e lavoratrici del sesso, nei quali si ritrovano i Cure e Siouxsie Sioux (dopo essere stati rimbalzati al CBGB) ubriachi che finiscono per fare a pugni con Lou Reed che li accusa di non essere troppo punk.

Love is a circle game” apre le travagliate danze con un feeling da Sisters of Mercy crepuscolari, “Moonstone” cavalca nei gotici prati cari alla band di Robertino Smith, “Words” vaga per la nebbia di Manchester e dintorni alla ricerca della tomba di Ian Curtis e sconfinando nella Glasgow di Bobby Gillespie; “Until The End Of The Fuckin’ World” trasloca a Berlino a flirtare con la neopsichedelia di Anton Newcombe. “Dead street” fa visita dalle parti di Siouxie and the Banshees, “Not for sale” fluttua attraverso universi dream pop, “She’s the sun” coglie in flagranza i fratelli Reid strafatti di assenzio. “Wooden girl” si perde nei deserti dell’Arizona, ma un raggio di ottimismo sembra filtrare nella conclusiva strumentale “Streamers“, che ci ricorda che ogni silenzio, tramonto o cattiva strada è una tappa fondamentale di questo viaggio spirituale in bilico tra amore e morte. Presente anche una trasfigurata cover – “Pretty colors” dei Just us (un pezzo in passato ripreso anche da mostri sacri come Mark Lanegan) – che, tuttavia, si incastra benissimo nel percorso concettuale del combo, in cui fine e rinascita si compenetrano in un mondo sonoro che riflette una realtà frammentata e caotica.

Tre è il numero perfetto e rappresenta il ciclo continuo in cui l’inizio e la fine si intrecciano e si influenzano reciprocamente, e i Bebaloncar chiudono il terzo atto della trilogia confermando un flusso di scrittura di notevole spessore e un amalgama ottimamente consolidato tra i membri dell’ensemble (che, particolarmente in sede live, trova la sua dimensione più appropriata) formato da gente che nella vita ha fatto una scelta precisa e netta: quella di muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto all’immondizia del mainstream musicale.

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