Biosphere – The Way of Time
Biosphere è il progetto solista di Geir Jenssen, musicista norvegese di lunga data, da tempo immerso in quell’oceano sonoro che sia agita nelle acque dell’elettronica che flirta con l’ambient. “The way of time” è il suo ultimo album. Ispirato dal romanzo del 1926 “The time of man” di Elizabeth Madox Roberts, andato in onda in versione radiofonica nel 1951 e da cui sono tratte alcune voci campionate, che racconta la dura vita di una adolescente nel Kentucky rurale di inizio Novecento.
Il disco, il secondo con l’etichetta londinese AD 93, e l’ennesimo di una carriera oltre trentennale che lo ha portato a realizzare non meno di 25 album, si caratterizza per il suo calore, per il saper sussurrare quando tutti gridano, e per un piglio decisamente cinematografico che affascina e avvolge. “The Way of Time” cerca di inseguire la bellezza, ma lo fa provando anche, nel frattempo, a dare una risposta ai grandi interrogativi della vita, a quelle domande che forse troppo presto abbiamo smesso di porci. Il punto forte dell’album è quello di riuscire ad esser caldo e accogliente attraverso suoni decisamente algidi.
Non sappiamo se esista un legame tra il Kentucky della Roberts e la Norvegia di Jenssen. Di certo c’è il tentativo di entrambi di dare voce a un’insoddisfazione latente, che prende corpo, parola dopo parola, e synth dopo synth, in un parallelismo inquietante che si muove tra l’immensità degli spazi silenziosi e la paura che il mondo stia davvero per finire.
Casual Hex – Zig Zag Lady Illusion II
Terzo album in dieci anni di attività per il trio statunitense di Seattle. A cavallo tra le dissonanze e i minimalismi i tre, capitanati dalla voce alienata ma seducente di Erica Miller, sembrano saperci stare alla grande. Nel momento in cui si poteva essere portati a pensare che un certo tipo di sonorità fossero ormai una cosa da relegare con nostalgia nel passato, ecco arrivare i Casual Hex e il loro “Zig Zag Lady Illusion II” a riportarci a contatto con la realtà.
Otto tracce per poco meno di venti minuti di musica. Un timing ideale per non ritrovarsi poi a dover combattere con la noia. Meglio pochi brani, da riascoltare a ripetizione per metterli a fuoco nei dettagli, che una sterminata sequela di brani che si dimenticano praticamente in tempo reale. Quella dei Casual Hex è una denuncia sociale che guarda allo stridere delle condizioni dei lavoratori statunitensi.
Il loro grido è rivolto alla gentrificazione, allo sfruttamento sociale, al consumismo indotto, all’insensatezza dell’assistenza sanitaria e alle nuove tecnologie, in grado di sostituirsi all’essere umano. Nonostante le sparate presidenziali gli USA non stanno affatto bene, e i Casual Hex non si fanno problemi a dirlo. Siamo sull’orlo del collasso, e i proclami di grandezza non serviranno a evitare di cadere in quel baratro che anche noi, in Europa stiamo cominciando a vedere sempre più da vicino.
In estrema sintesi possiamo riassumere “Zig Zag Lady Illusion II” come un album sincero (concettualmente) e disturbante (da un punto di vista sonoro). C’è chi dice, dopo averlo ascoltato, che emerge chiara l’influenza dei Sonic Youth. Personalmente credo di poter archiviare la cosa come un complimento e non come un plagio. I Casual Hex hanno un carico di personalità tale che li porta a proseguire un percorso irto di difficoltà ma a farlo con le loro sole gambe.
Haress – Skylarks
Non era facile bissare, qualitativamente parlando, un album come quel “Ghosts” che nel 2022 li fece conoscere al grande pubblico, aprendo loro la strada per il tour con i Godspeed You! Black Emperor o con i Big|Brave. Non era facile, ma i quattro Haress ce l’hanno fatta, alla grande. “Skylarks”, uscito a metà anno per la Wrong Speed Records, riesce ad arrivare dove, forse nemmeno loro, speravano. Quattro brani per oltre quaranta minuti di musica che volano letteralmente via.
Anzi, a volte, la sensazione, durante l’ascolto, era quella di augurarsi che il brano non finisse mai, che proseguisse ancora, ad oltranza, tale e tanto era il trasporto intimista che si era creato. “Skylarks” è un disco caldissimo, che guarda come detto al folk più intimista, ma con un approccio decisamente sperimentale, che in alcuni momenti riporta la mente a un immaginario medievaleggiante.
Un disco in cui non c’è nulla di forzato, che suona compatto, senza apparenti punti deboli, forte del fatto di essere completamente privo di cliché. Gli Haress sono una realtà che guarda al passato ma lo fa senza eccessiva nostalgia, senza paura, con tutto il dovuto rispetto, e se ripropone qualcosa di quel mondo lo fa con riverenza, con la dovuta e doverosa distanza di chi contestualizza ma con intelligenza. Non è facile cimentarsi con queste scelte sonore.
Il rischio di cadere nella banalità è altissimo. Gli Haress hanno dimostrato di saperlo fare, consegnandoci un album che ci lascia addosso uno straniante senso di impermanenza, di vuoto temporale, di calore avvolgente e di grande, grandissima bellezza. Un disco da far risuonare al tramonto, nel silenzio, mentre il sole colora tutto di rosso preparandosi a lasciare spazio alla luna e a tutta la magia che si porta dietro.
Noise Trail Immersion – Tutta La Morte In Un Solo Punto
Sono già passati tre anni da “Curia”, album che mi aveva permesso di scoprire (come spesso accade in ritardo) i Noise Trail Immersion. Tre anni che hanno permesso al quintetto torinese di concentrarsi nella realizzazione di questo recentissimo “Tutta la morte in un solo punto”, uscito ad inizio estate su I, Voidhanger Records.
Come era prevedibile il disco è una colata di dolore che non si arresta se non a fine ascolto. Un album che fa del caos e della schizofrenia il suo punto di forza, e che trasuda tutta la sofferenza di cui è intriso e che sta dietro alla sua creazione. Un’ulteriore passo avanti nella crescita come band, senza alcun dubbio, che segna una maggiore e consolidata personalità.
Pur mantenendo saldi i legami con quelle dissonanze che ne hanno caratterizzato il recente passato, la band ha scelto di andare oltre, spostando ulteriormente il livello dell’asticella verso l’alto.
Ne è uscito un album interessantissimo, che possiamo senza alcun dubbio inserire in quelli più coraggiosi di questo duemilaventicinque. Ad oggi non sono molte le realtà in ambito estremo che possono contare su un songwriting allucinato come quello dei Noise Trail Immersion. Per la maggior parte dei fruitori di :: acufeni :: potranno sembrare eccessivi in alcune parti, al limite della cacofonia, ma questa è solo la sensazione di partenza, quella più facile da decifrare, quella che fa meno paura. Basta infatti lasciarsi andare, lasciarsi trascinare a fondo, e in un attimo la prospettiva cambia. Si scopre un disco che non ammette replica, quasi perfetto.
Uno che di musica se intende mi ha detto che fanno avant-garde/post-black, io ho risposto solamente che per me fanno paura! E non credo di aver sbagliato di molto.
The Black Dog – My Brutal Life 2
I Black Dog proseguono nel loro tributo a quelle che chiamano le “cattedrali moderne”, i monumenti al popolo. Per tutti gli altri, in modo da sgomberare il campo da equivoci, si parla di “Brutalismo”, la corrente architettonica nata nella metà del novecento, che, anche qui da noi, in Liguria è ben rappresentata dal complesso residenziale “Pegli 3”, le famose “lavatrici” visibili da chiunque transiti nel tratto autostradale adiacente.
Il trio inglese, cerca di rendere tangibile da un punto di vista sonoro, la simmetria e la ripetizione degli edifici, con un approccio e emotivamente intenso che guarda alla profondità dei suoni, algidi come il cemento, ma al contempo caldi e accoglienti.
Il disco rappresenta la terza parte del progetto sorto nel 2022 con EP “Brutal Minimalism”, sempre insieme alla Dust Science Recordings, e si somma alla realizzazione di un album fotografico a tema brutalista.
Meno orientato verso l’isolazionismo rispetto alla prima parte, “My Brutal Life 2” guarda ad un ampliamento sonoro per quanto riguarda la gamma di soluzioni messe in atto dal trio di Sheffield. Il disco infatti mostra una maggiore attenzione per quelle che sono le sensazioni più intimistiche legate a queste strutture, guarda più alle emozioni di chi vi transita che non a quelle che trasudano le colate di cemento.
Quello che resta costante in entrambi gli album è quel senso di malinconia e di disperazione da cui non ci si riesce ad emancipare. L’unica pecca del disco è forse data dall’eccessiva lunghezza, che alla lunga rischia di rendere l’ascolto un pò troppo statico. Un tentativo quanto meno inedito di ricercare la bellezza attraverso un approccio brutalista, fosse anche solo per questo, lo consiglieremmo comunque.










