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Recensione : The Unknowns – Looking from the outside

The Unknowns "Looking from the outside": un'esperienza punk che scuote e incendia! Scopri il terzo album della band australiana che spacca!

In questa ennesima estate infame e miserabile, in cui la gente si sta cagando addosso più per le punture delle zanzare che per l’aria di merda che infesta il globo a causa dei venti di una guerra mondiale a pezzi (che, mai come in questa epoca, potrebbe rendere concreto il rischio che l’intero pianeta scivoli verso un catastrofico armageddon nucleare) arriva come una corroborante secchiata d’acqua gelida in faccia “Looking from the outside“, il terzo lavoro sulla lunga distanza degli Unknowns, pub-punk band proveniente dall’Australia (e che te lo dico a fare, la terra di canguri e galeotti deportati dal “democraticissimo” impero britannico, da mezzo secolo a questa parte diventata una delle miniere rock ‘n’ roll più fulgide di sempre) che dal 2014 brucia i timpani e frigge i cervelli dei malcapitati (?) che si sono imbattuti nei solchi dei loro platter o sono rimasti folgorati dai loro concerti selvaggi.

La benemerita Drunken Sailor e l’australiana Bargain Bin Records hanno pubblicato “Looking from the outside“, full length numero tre – come scritto in precedenza – del combo aussie (Josh Hardy ed Eamon Sandwith alle chitarre e voce, entrambi già nei Chats; Nathan Montgomery al basso e voce, e Tom Butler alla batteria) arrivato a due anni di distanza dal precedente Lp “East coast low“, e fin dall’opener “All grown up” i livelli di marciume sonico (a metà strada tra Ramones e Hives) sono più che accettabili, così come nel punk ’77 amfetaminizzato di “None to me” (uscito anche come singolozzo) “Lost me” e “Pyschotic” (quest’ultima dagli echi SexPistolsiani accelerati) mentre “Hold my shadows” suona come una versione lo-fi di una outtake degli Who registrata in qualche scantinato londinese, e mixata dai Jam di Paul Weller ubriachi e strafatti. “I know that you know” trasuda influenze dei connazionali Radio Birdman per un minuto e quaranta secondi scarsi da scapocciare, così come nella torrenziale “Tongue tied” ritroviamo la stessa esuberanza di Cosmic Psychos e Hoodoo Gurus, un minuto e cinquanta seconds per mandare affanculo tutto e lasciarsi trasportare da un infuocato flusso punk ‘n’ roll. “Leave it all behind” shakera i Buzzcocks di “Spiral scratch“, Saints e Ramones in un cocktail letale. “Ain’t what you want” e “Thunder in my head” rallentano giusto un attimo i ritmi forsennati, ma ne guardagnano in potenza R’N’R che fa godere i sensi, e anche il finale con “Crazy eyes” (due minuti e mezzo da pogo ignorante sotto i palchi) e la title track ramonesiana chiude in bruttezza – perché qui di bello non c’è nulla, solo lercitudine – un long playing cagato fuori compatto e inarrestabile nel suo essere incendiario.

Poche seghe, il consiglio che sentiamo di darvi è di tirar fuori i dindini per mettere le vostre luride zampacce su questo album e farlo vostro perché spacca il culo, e gli australiani c’hanno sempre la roba (più) buona in fatto di rock ‘n’ roll. Dischi infuocati come “Looking from the outside” meriterebbero di avere, ogni anno, un posto in ogni classifica finale dei migliori album perché fanno da “cerniera pedagogica” tra ciò che di buono/ottimo ha sfornato la nostra musica preferita in passato e il necessario e credibile upgrade di freschezza per renderla irresistibile e in grado di conquistare nuovi adepti presenti e futuri.

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