Può piacere o meno, essere amata o “divisiva” (come dicono quelli bravi del “politicamente corretto”, o pirletto) ma una figura come quella di Giorgio Canali resta sempre importante nel contesto della “scena alternativa” italiana e un costante punto di riferimento per il rock indipendente a tutto tondo. Personaggio mai banale, dissacrante e provocatorio, controcorrente e controverso, scomodo e contraddittorio, al tempo stesso profondo e sboccato, poetico e crudo, riflessivo e istintivo, eccentrico e riservato, incazzato e tenero, irriverente e schivo, essere pensante e cane sciolto per definizione (non si ritrova in nessuna ideologia/movimento e, coerentemente, manda a fanculo tutti) Canali, tra una bestemmia e una testata tirata ai microfoni sui palchi, è musicalmente attivo e in giro da quattro decenni (come tecnico del suono, produttore discografico e musicista) tra Italia e Francia, e un pochino di “storia” dell’alternative rock nostrano l’ha scritta anche lui (egli stesso si definisce “un vecchio di merda” e un boomer) con le esperienze fatte negli ultimi CCCP Fedeli Alla Linea, che poi sono diventati i C.S.I. (coi quali ha assaporato un inaspettato “successo” da primo posto nella classifica di vendite) e poi P.G.R., parallelamente all’inizio di una parabola solista dalla fine degli anni Novanta col disco “Che fine ha fatto Lazlotòz“, e poi proseguita coi Rossofuoco, progetto che quest’anno ha salutato la pubblicazione dell’ottavo studio album, “Pericolo giallo“, uscito in ottobre su La Tempesta Dischi.
Composto in “modalità smart working” per necessità logistiche, e concepito come un ideale seguito musicale e lirico del precedente full length “Venti” (datato 2020), “Pericolo Giallo” vede il quartetto – composto da Giorgio Canali alla chitarra e voce, Marco Greco al basso, Luca Martelli alla batteria e Stefano Dal Col alla chitarra e piano – alle prese con dodici canzoni che rappresentano, essenzialmente, un ottimo pretesto per tornare a suonare dal vivo (la dimensione prediletta da Canali) in giro per l’Italia, ma anche per esternare il suo punto di vista sulle porcate della nostra epoca, con testi sferzanti e disincantati che trattano di disparate tematiche.
E si parte con l’opener “C’era ancora il sole“, un “inno di ottimismo nichilista” (come descritto dallo stesso Giorgio) che parla di scenari post-pandemici, tra informazione tossica e liturgia del pensiero unico imposte dal mainstream dei mezzi di produzione del consenso (telegiornali, siti internet, social network) e il ritorno della “guerra fredda” e dell’incubo di un olocausto nucleare. “Un filo di fumo” è un piccolo manuale di sopravvivenza per le nuove generazioni che, secondo il frontman di Predappio, non sono così idiote come vorrebbero farci credere e, con un piccolo bignami sulla storia e le vicende italiane dal dopoguerra a oggi (la Resistenza, la lotta armata, lo stragismo, strategia della tensione, G8 di Genova e sbirraglia al servizio del Potere borghese e dei padroni, il neofascismo/neonazismo ritornato dalle fogne e oggi di nuovo dilagante, la disinformazione di regime, le storture delle democrature europee) non si propone di istruire le nuove leve, ma solo di metterle in guardia contro lo schifo del mondo che li (e ci) attende là fuori. “Morti per niente” (titolo ispirato da una frase scritta a vernice nel Sessantotto da un anonimo anarchico sul muro bianco di un sacrario francese per i caduti della seconda guerra mondiale) è un saltellante rock ‘n’ roll che tratta della Resistenza, di episodi che l’hanno caratterizzata e della vuota retorica istituzionale delle sue finte celebrazioni da parte della “repubblica democratica” italiana di oggi che la considera solo una ricorrenza da celebrarsi, con frasi di circostanza, soltanto il 25 aprile e l’ha completamente tradita e non ha mai fatto realmente i conti col fascismo (che, come canta Canali, è sempre qua, non è mai stato spazzato via, è un cancro dentro ogni Stato, e ogni Stato è uno stato di polizia) rimasto impunito e da trent’anni a questa parte sdoganato dal berlusconismo e rivalutato dal revisionismo storico all’italiana, e una amara ode a tutte quelle persone che hanno combattuto e sono morti per la libertà contro la tirannia nera che, a ben vedere, non è mai scomparsa, ma si è solo riciclata e camuffata nelle cosiddette “istituzioni democratiche” tra strategia della tensione, colpi di stato militari, P2, Gladio e compagnia massonica deviata. In “Solo stupida poesia” si cambia registro con una ballad che parla d’amore e di un Canali (oggi di stanza a Perugia) che ha ritrovato ispirazione artistica e felicità nella sua sfera privata, mentre nella title track si ritorna a un R’N’R più ruspante e a liriche che prendono spunto dall’allarmismo che, alla fine dell’Ottocento, si era diffuso in Europa riguardo a una fantomatica invasione cinese e dell’Estremo Oriente che cresceva, demograficamente, a dismisura e avrebbe costretto il “primo mondo” occidentale-bianco-democratico-cattolico-industrializzato-civilizzato-evoluto a mangiare riso, nidi di rondine e cani: tecniche sperimentate dal Potere per mantere lo status quo (e instillare nei popoli la cultura della paura, dell’emergenza perenne per deviare sempre più verso l’autoritarismo e l’eliminazione delle libertà, del servilismo verso il capo che ti ordina cosa fare e dell’odio per il “diverso”, per lo “straniero” e per tutto ciò che è lontano e differente dal modo del Nord globalizzato atlantista di concepire il mondo) da oltre un secolo a questa parte, e che nel corso dei decenni, grazie soprattutto alle nuove tecnologie, sono state affinate e potenziate, fino ad arrivare a paventare nuovi “pericoli gialli” (la costante minaccia della “dittatura comunista” in Cina è sempre un evergreen e più attuale che mai) e “rossi” (ieri la minaccia sovietica, oggi quella russa) di altri colori (la costante propaganda politica razzista propinata dalle destre e dai mass media contro l’africano che arriva sul barcone a rubarci il lavoro, l’albanese, lo slavo, il rom… è sempre colpa degli altri, mai della mentalità provinciale dell’italiano medio, che si lamenta dietro le tastiere di un computer/telefono, si laurea in tuttologia “studiando” su Facebook presso l’università della strada e della vita, ma non fa nulla per ribellarsi a chi gli fa il lavaggio del cervello né organizzarsi per migliorare la sua condizione di eterno sfruttato dal sistema capitalista neoliberista). In “Pulizie etiche” ci si chiede sarcasticamente “Cos’è andato storto?” in questi anni in cui i ghetti seriosi del politically correct e della woke culture stanno cancellando il diritto all’ironia e la libertà di satira, in un calderone di mixed media che, attraverso la cancel culture, vuole eliminare la storia umana, coi suoi pregi e i suoi errori, dalla memoria collettiva, finché non si affermerà un nuovo nazifascismo globale del terzo millennio che farà piazza pulita della civiltà: una panoramica sulle nostre disgrazie di sudditi di un re imbecille (la televisione, le nuove tecnologie che hanno creato nuovi mostri) che però alla fine ci fotte sempre, e ancora una volta ci si stupisce del silenzio della moltitudine del gregge omologato perché, evidentemente, alla gente va bene così (“andrà tutto bene” un paio di balle) e finché non la tocchi nei portafogli e nei suoi interessi economici privati, tira a campare/sopravvivere e se ne sbatte il cazzo delle questioni morali ed etiche. In “Meteo in quattroquarti” (che nel titolo si riaggancia a “Meteo in cinqe quarti” presente sul precedente “Venti”) la metereopatia è applicata alla condizione umana, e le paure del mondo si confondono con i nostri mali e paure personali, e la movimentata “Quando si spegne il sole“, tra i pezzi più brillanti del lotto per la chimica azzeccata tra musica e testo, è un altro affresco che dipinge una società odierna apocalittica che, tra ingiustizie e neolingue di regime, aspetta solo il famoso meteorite per estinguersi e, tra le righe, prende per il culo le religioni e la l’inutilità del loro fanatismo. “A occhi chiusi” è una avvilita denuncia dei mali e delle ipcocrisie del nostro “Bel Paese” ai quali Canali contrappone l’amore come ricetta perfetta per salvarci dal farci cattivo sangue e dal mal di fegato. “Come si Sta (la Guerra di Pierrot)” è un altro j’accuse generico contro la morte del pensiero critico e gli allocchi che si bevono qualsiasi cazzata di propaganda governativa calata dall’alto da televisioni, siti internet e giornali (ancora una volta, mezzi di produzione del consenso utilizzati dalle elites borghesi capitaliste per indirizzare/manipolare il sentire comune dell’opinione pubblica) dalla guerra per procura della NATO in Ucraina (finanziata anche dal nostro governicchio di “patrioti” sovranisti in camicetta nera attraverso l’invio di armi e fiumi di denaro, alla faccia della Costituzione italiana che, in teoria, ripudia la guerra) al covid (un tasto sul quale Canali, da tre anni a questa parte, ha sempre battuto parecchio) un “riformismo cosmetico” contro cui ci si scaglia anche in “Cosmetico” che rievoca la Nostra Signora della Dinamite contro questa “maggioranza di minorati” che decide anche per le nostre vite. Chiude il disco la robusta ballata intimista di “La fine del mondo“, scritta dall’attore, musicista e amico Aleph Viola.
Italiani, non cincischiate: deponete lo smartphone e sostenete il vero rock ‘n’ roll e personaggi genuini come Giorgio Canali. Mandate a fanculo le rockstar milionarie che spostano la residenza fiscale (loro e delle loro band… AssìDissì, Iutiù-BonoVoxpaladinodestaceppa, Rollinstònz e altre cariatidi) in Olanda o in altri paradisi fiscali per non pagare le tasse e poi vi fanno spendere 150 euro a biglietto ai loro concerti nelle arene con il palco a un chilometro di distanza dal pubblico (e dove magari hanno ancora la faccia tosta di proporre inni generazionali “rivoluzionari”, o comunque cavalli di battaglia di un passato rock ‘n’ roll ormai svanito e oggi incarognito nell’ipocrisia da musicisti imborghesiti ormai ultrasessantenni e diventati pure capitalisti reazionari) boicottate questo circo dello star system e tornate ad ascoltare la musica nei piccoli club e in minuscoli locali dove suona gente vera e i musicisti li guardate in faccia e non sui maxischermi del cazzo. Lì ci troverete anche Giorgio Canali, che non è qui per essere idolatrato (o si brucerà, come cantava il suo ex compagno di band, G.L.F., sulla cui parabola stendiamo un velo pietoso) anche perché alla fine se ne sbatte i coglioni di fare “discorsi belli tondi e ragionevoli” e pipponi politici ai suoi live, ma non rinuncia a descrivere le brutture della nostra società e a raccontare la propria visione del mondo, e da venticinque anni va avanti lungo la strada di un suo percorso personale, sanguigno e coerente, che unisce rock ‘n’ roll solido e senza fronzoli a un cantautorato moderno “sui generis” dialetticamente più vicino a Bukowski (ah, quanti danni hanno fatto le sue frasi usate totalmente fuori contesto e spiaccicate sulle bacheche social sotto forma di “citazioni” sulle bacheche di chi vuole darsi un tono intellettualoide, o copia/incollate a mo’ di didascalia pseudo-filosofica a corredo di foto di corpi di persone seminude, con bocche a culo di gallina, che ne ignorano completamente il senso) che a un De Andrè o un Guccini. Canali è fatto così: prendere o lasciare. Noi ce lo prendiamo ancora (“nel culo”, come immagino terminerebbe lui la frase) e, con la sua benedizione, andiamo tutti a farci fottere.
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