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Recensione : Station Dysthymia – Overhead, Without Any Fuss, The Stars Were Going Out

Dire Siberia e rabbrividire per un attimo anche in piena estate è un tutt’uno, così come lo è immaginare che i musicisti provenienti da quelle parti possano essere naturalmente predisposti a sonorità tutt’altro che solari.

Station Dysthymia – Overhead, Without Any Fuss, The Stars Were Going Out

Luoghi comuni a parte, gli Station Dysthymia da Novosibirsk, con questo loro splendido secondo disco, si pongono all’attenzione degli appassionati di funeral doom, collocandosi sulla scia dei magistrali Esoteric.
L’accostamento con la band britannica invero non è causale, se pensiamo che Greg Chandler ha curato in prima persona la resa sonora di Overhead, Without Any Fuss, The Stars Were Going Out.
Va chiarito subito che il riferimento agli Esoteric ha la sola funzione di fornire un termine di paragone più o meno attendibile a chi si vuole avvicinare a questo monolitico lavoro: in realtà il sound dei siberiani possiede una propria peculiarità anche se, in una band di formazione relativamente recente, la presenza di influenze più o meno significative va a maggior ragione tollerata.
Il disco trae il suo lungo titolo dal romanzo di Athur C.Clarke “I nove miliardi di nomi di Dio” e questo, in qualche modo, indirizza anche le tematiche fantascientifiche che permeano il lavoro: ovviamente non è difficile immaginare che, anche nella visione dei nostri, il futuro del genere umano sia tutt’altro che roseo.
Un’ora e dieci di ritmi pachidermici si abbattono su chi possiede la passione e la pazienza per ascolti di questo tipo: la prima, mastodontica traccia intitolata A Concrete Wall dura quasi trentacinque minuti e, da sola, basterebbe e avanzerebbe per definire questo lavoro un must per gli habituè del genere.
Nell’occasione, lo stile degli Station Dysthymia non mostra la pur minima apertura a passaggi melodici basando tutto sulla profondità dei suoni e sull’impatto ossessivo capace di infrangere qualsiasi tentativo di resistenza psichica: l’ultimo quarto d’ora del brano è qualcosa difficile da descrivere, tale è lo straniamento che è in grado di provocare.
La successiva Ichor non è assolutamente da meno, anche se ci viene concesso di intravedere qualche fioco bagliore di luce, grazie a una tastiera che talvolta riesce a farsi timidamente largo tra il cupo riffing delle chitarre: francamente un brano splendido che, in virtù di una durata dimezzata rispetto alla traccia precedente, sembra persino dotato di un (relativo) dono della sintesi.
Il finale è riservato a Starlit, suddivisa in due parti , nella quale un’aura malinconica attenua non poco i toni claustrofobici che, fino a questo punto, avevano contraddistinto il disco: una conclusione degna per un’opera di grandissimo pregio, che ci consegna un’altra band in grado di affiancarsi a pieno titolo ai nomi di maggior spicco della scena funeral.

Tracklist :
1. A Concrete Wall
2. Ichor
3. Starlit: A Rude Awakening
4. Starlit: We Rest at Last

Line-up :
O. – Drums
S. – Guitars
A. – Guitars
B. – Vocals, Bass

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