“Essere Skinhead” di Ruggero Daleno (Red Star Press / Hellnation Libri)
“Essere Skinhead” ci ha lasciati interdetti. Il libro di Ruggero Daleno era uno di quelli che da tempo attendevamo di leggere, e forse, l’attesa, con il suo carico di aspettative, ha contribuito a portarci in questa situazione di stallo emotivo. La storia che ci racconta (da intendersi come autobiografica, e che non scende però nei dettagli, lasciando intravedere una situazione legata a problematiche legali in via di definizione) è ambientata a Barletta, in un pezzo di Puglia che si specchia in quell’Adriatico che il protagonista vede dalla finestra di camera sua. Un contesto sociale che è periferia non solo geografica ma anche periferia dei sentimenti. Il contesto è un sottoproletariato in cui le problematiche sociali, e la repressione dello Stato, in ogni sua forma, sono quelle che possiamo trovare a tutte le latitudini, ma soprattutto sono quelle a cui nessuno sembra davvero interessato a dare risposta.
Dalle parole di Daleno emerge fortissimo l’orgoglio di far parte di una realtà che è sostanzialmente scelta. Una scelta che sente di dover rivendicare, individuandola come l’unica veramente possibile. Il testo però più che un romanzo è inquadrabile come un manifesto generazionale, e di intenti, scandisce quelli che sono i cardini di un’azione che deve, per forza di cose, essere sia politica che sociale. “Essere Skinheads” è rappresentativo di un movimento sottoculturale (anche se forse sarebbe meglio identificare come “culturale”, ma qui apriremmo una discussione infinita che tra le altre cose è off topic) tra i più controversi, ma solo per un approccio, volutamente pigro e conseguentemente viziato, in quanto incompleto e superficiale a livello di visione mainstream, tra quelli mai apparsi.
Quello che non ci convince, a lettura ultimata, è il quadro che emerge, e che propone una visione riduttiva di un mondo culturale, chiusa in una chiave di lettura che non fornisce gli adeguati strumenti per essere compresa a chi è solitamente al di fuori di queste dinamiche di antagonismo sociale, estetico e musicale. L’aspetto su cui si torna spesso, è a nostro avviso uno di quelli che dovrebbero avere minore spazio. L’autore finisce per impantanarsi troppo sull’aspetto della “compattezza della crew” unificata in nome della birra, andando solo a sfiorare il lato sociale, che guarda non solo all’antagonismo dello stato, ma a un tentativo di porre le basi per un domani differente che non sia solo ribellione, ma che possa portarci a gestire “un dopo” che necessariamente dovrà arrivare prima o poi. Non possiamo fermarci alla rivoluzione (sempre che arrivi, cosa di cui siamo sempre più dubbiosi) ma pensare oltre, anche perché, altrimenti, a una gestione totalitaria sostanzialmente filofascista come quella in atto oggi, si rischia di opporre una gestione libertaria antifascista ma ugualmente mossa dall’odio verso il “nemico”. A poco importa sapere di stare dalla parte giusta della storia, se non cambiamo il sentire comune, se non educhiamo le masse, se non forniamo loro gli strumenti per crescere e per evolversi. Il pericolo è sempre quello di diventare ciò che diciamo di combattere, e che combattiamo (per una giusta causa). Dobbiamo cioè andare oltre la birra e la musica.
Manca – come detto – per chi è a digiuno di queste tematiche, un quadro di insieme, che possa far capire che significhi davvero essere parte di un movimento, come quello skinhead. Le ragioni espresse sono sostanzialmente ascrivibili a tutto quel mondo antagonista (punk, ma non solo) che si schiera dalla parte degli oppressi nell’eterna lotta contro il capitale, e contro i suoi rappresentanti (stato istituzionale e “padroni”) in contesti sociali di degrado e povertà, in cui regnano la violenza dei più forti e la sopraffazione e la discriminazione verso i reietti. A questo punto che cosa cambia tra essere punk o skinhead?
Barletta, ma non solo, forse tutta la Puglia, sembra la versione 2.0 dell’Inghilterra sottoproletaria dei giorni in cui la Thatcher imperversava con la sua repressione, anche se tutto resta in quel detto non detto che non approfondisce, dando quella profondità che forse avrebbe potuto meglio rendere lo spessore di uno spaccato sociale. Si chiude invece con l’ennesimo spazio sulle vertenze legali del protagonista, che, a conti fatti finisce per dipingersi forse troppo “duro e puro” per risultare, non tanto credibile, ma quanto meno empaticamente interessante. Se davvero il suo mantra è “la rabbia dei punk e l’odio degli skinhead” noi preferiamo defilarci.