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Douglas Coupland – Dio Odia Il Giappone

Se non vi fate prendere dal nervosismo o se siete costretti, com’è successo a me, di affrontare un viaggio di sei ore con quest’unico libro a disposizione, beh, il romanzo scorre che è una meraviglia. E lo ammetto: Dio odia il Giappone un suo pubblico ce l’ha, quel pubblico che appunto preferisce le belle trovate alle trovate intelligenti.

Dio odia il Giappone, scritto da Douglas Coupland, è un romanzo moderno. Ciò significa che la trama è puramente a servizio del personaggio. In altre parole, la trama è il personaggio. Ma andiamo con ordine.

Hiro è il classico sfigato. E’ magro, butterato dall’acne, ha le caviglie deboli e destinato alla verginità a oltranza. Ma, soprattutto, è giapponese. E come tutti i giapponesi (almeno a detta sua) è alla disperata ricerca di un’identità. Il breve romanzo ci racconta per episodi e per ricordi l’adolescenza e i tentativi di maturazione del protagonista nell’arco di una decina d’anni. Potrebbe essere un romanzo di formazione, ma non lo è: Hiro era, è e rimarrà un perdente cronico, uno di quelli che scelgono di non farcela perché troppo impauriti e/o perché troppo ancorati alla propria formazione. Le crisi che il protagonista incontra lungo il suo percorso non si rivelano stimoli per crescere, ma rimangono, appunto, crisi, motivi di sconfitta senza redenzione. Gli strascichi sono esclusivamente negativi. Ovviamente, Hiro è innamorato. E non è innamorato della più bella della classe (o almeno non solo), ma di una ragazza che dopo essere rimasta vittima di un attentato in metropolitana perde un polmone e si mette al servizio dell’autodistruzione più bieca. Lei sarà la miccia che accenderà l’intreccio, colei che spingerà Hiro sino in Canada, la terra promessa dei giovani giapponesi, per mettersi alla sua ricerca. Ma in Canada il povero disgraziato non troverà nemmeno sé stesso; in Canada, anzi, farà una nuova scorpacciata di confusione.
Douglas Coupland, autore negli anni 90 di un libro, Generazione X, che fece discretamente parlare di sé, ora ha cinquant’anni, ma non li dimostra. E questo, credetemi, non è sempre un bene. Dio odia il Giappone sembra scritto da un ventenne. Il problema è, appunto, che il suo autore non è più di primo pelo, e sì che conosce come far presa sul pubblico, e sì che scrivere sa scrivere, ma è palese che per compiere una simile operazione sia dovuto scendere a parecchi compromessi. Ad esempio? Ad esempio le trovate furbesche, gli ammiccamenti, le situazioni forzatamente paradossali. Hiro è un imbranato, sa solo auto commiserarsi. Non fa pena, fa rabbia. Credetemi: quando l’autore farà indossare al suo personaggio un vestito da coniglio, se siete lettori un minimo esperti, vi verrà una discreta voglia di gettare il libro giù dalla finestra. Non siamo stupidi. Da uno scrittore ventenne queste pagliacciate le accettiamo con un sorriso; da uno scrittore esperto, no. Da uno scrittore esperto, ad esempio, ci aspetteremmo un altro modo di esporre i turbamenti del giovane Hiro rispetto al ‘Caro Clone ti scrivo’.
Una cosa però gli va riconosciuta. Se non vi fate prendere dal nervosismo o se siete costretti, com’è successo a me, di affrontare un viaggio di sei ore con quest’unico libro a disposizione, beh, il romanzo scorre che è una meraviglia. E lo ammetto: Dio odia il Giappone un suo pubblico ce l’ha, quel pubblico che appunto preferisce le belle trovate alle trovate intelligenti. Lungi da me il giudicare.
Giudicare il pubblico, s’intende.

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