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Salvatore E Antonio

Salvatore E Antonio: Non ricordo più il giorno preciso in cui tutta questa avventura, questa mia vita, ha subito l’ennesimo brusco sconvolgim...

Salvatore E Antonio

Non ricordo più il giorno preciso in cui tutta questa avventura, questa mia vita, ha subito l’ennesimo brusco sconvolgimento. Quando la mia coscienza si risveglia dal breve sonno che posso concedermi, riaffiorano alla mente alcuni dei momenti concitati di quel giorno. L’età e le esperienze della vita mi costringono a un perenne sonno senza sogni. Gli incubi mi disturbano di giorno, sopravvissuti alla guerra e più forti di me. Penso ancora a ciò che accadde, in quegli anni, prima e dopo il giorno in cui tutto cambiò.
Dire che mi ero abituato a quelle brutalità che, in fondo al mio cuore, ripugnavo con massimo orrore, sarebbe corretto. Semplicemente, invece di prendere atto di tutte quelle violenze che io stesso perpetravo, mi astraevo, abbandonavo il mio corpo, preferendo lasciare un immenso vuoto al posto della mia anima.
Adesso il peso di quei momenti drammatici mi opprime in maniera indicibile. Ricordo che spesso pensavo di lanciarmi in uno dei numerosi dirupi che incontravo in quel bosco. La mia fine sarebbe stata un parziale compenso: avrei ripagato una parte del debito maturato nei confronti dell’umanità.
“È la cosa giusta”, dicevano i comandanti. “È la cosa giusta”, ripetevano solerti i soldati, miei simili, con gli occhi pieni di dubbi e di risentimento. Non avevo scelta, mi ripeto ora.
Quel giorno, saranno passati più di otto mesi, non fu il bosco a darmi il buongiorno. Fu Matteo, forse il mio unico amico lì in mezzo, a scuotermi con violenza. “Sono andati tutti via, qui non c’è più nessuno! Dobbiamo fuggire! Forza, alzati!”. Attorno a noi le voci concitate riempivano la camerata. “I fascisti sono spariti!”, “I comandanti sono scappati tutti!”. Ci mettemmo poco a capire quel che era successo, correvano voci assai insistenti ormai da mesi. Infine, l’Italia s’era arresa agli Alleati.
Quel giorno avremmo dovuto essere più preparati, reagire d’istinto.

Ma tardammo. E i tedeschi vennero a prenderci. Ci caricarono su un treno, senza darci spiegazioni. Proprio noi, che fino al giorno prima avevamo dovuto combattere al loro fianco e punire tutti quegli innocenti! Sapevamo che il treno avrebbe potuto avere un’unica mèta: i campi. Quelli in cui milioni di morti giacevano ammassati, uccisi dalla fatica, dagli stenti o dalle camere a gas.
La mia decisione fu istintiva. Ruppi un finestrino e mi buttai giù, il treno ancora in corsa, in mezzo a un panorama fitto di sterpaglie. Rotolai per parecchi metri, mi ferii in modo lieve, ma fu un sollievo vedere che il treno non arrestava la sua corsa. Nessun tedesco aveva notato la mia fuga. Iniziai subito a correre per cercare un riparo. Non potevo aspettare che Matteo prendesse la mia stessa decisione. Le speranze erano ormai definitivamente perdute.

Dopo quel giorno, per otto mesi ho vissuto in questo bosco, sperduto e invisibile al mondo. Il bosco mi accolse festoso: alcuni uccelli cinguettano tra i rami sopra di me, un vento leggero scuoteva le foglie, la terra umida mi riportava quell’odore bagnato e vivo che mi svegliava ogni mattina. È stato difficile trovare un sostentamento, ma riuscii a costruire delle armi di fortuna per cacciare, e trovai pure un bel fiume straripante d’acqua fresca. Non sapevo quale sarebbe stato il mio destino, ritenevo persino futile pensare di averne ancora uno.

Otto mesi dopo, mentre facevo il bagno, un rumore improvviso mi mise in allerta. Uscii dal fiume, ancora completamente bagnato, e mi rivestii lentamente. Se c’era qualcuno, sarebbe stato inutile fuggire. Non avevo nascondigli accanto a me, né ripari. La canotta aderiva alla pelle. I pantaloni erano l’unico capo della divisa di cui non ero riuscito a disfarmi: erano le uniche braghe che possedevo.
A un tratto un uomo sbucò dalle fronde dei cespugli. Non indossava nessuna divisa, ma aveva un’espressione cattiva. Ci studiammo per alcuni lunghissimi secondi. Era il primo umano che incontravo dal giorno della fuga, otto mesi prima. Non sapevo bene cosa fare, perciò non feci nulla. L’uomo mi guardò, nei suoi occhi riuscivo a leggere le molte domande che avrebbe voluto pormi. Improvvisamente dietro di lui apparsero decine di uomini che puntavano le loro pistole e i fucili contro di me. L’uomo alzò la mano e disse: “Fermi. Non sparate. Non ancora.” Si avvicinò lentamente e mi scrutò con attenzione, come se stesse ammirando uno strano dipinto in un museo. “Se mi dirai a quale truppa hai prestato servizio e dove sono i tuoi commilitoni, ti lascerò vivere”, sentenziò a voce alta. Dicendo questo, notai che scrutava i miei pantaloni. Gli dissi senza esitazioni a quale reparto appartenevo. Gli raccontai la mia storia, lì, subito. Non avevo più forze né desideri di vivere. Percepivo l’idea della morte come una liberazione da quella tremenda condizione. Costretto a vagare sulla terra come un pellegrino senza mèta, mentre la mia anima perduta giaceva nei tormenti e negli immensi sensi di colpa. Se quegli uomini fossero stati tedeschi o fascisti, mi avrebbero giustiziato e sarei stato finalmente libero. Non avevo più paura di loro. Quegli otto mesi di distacco completo dal mondo mi avevano reso disinformato, non conoscevo le evoluzioni della guerra e la sorte che aveva atteso i miei spregevoli capi. Il terrore che i fascisti avessero riconquistato terreno mi inorridiva: ma non era certo per me stesso che provavo pena.
L’uomo sconosciuto, però, appariva sorpreso dal mio racconto. Mi chiese se ero armato e io indicai le lance acuminate che avevo costruito. Me ne privarono e poi mi legarono a un albero. Non opposi resistenza.

Rimasi lì fermo per alcune ore. L’uomo venne a portarmi dell’acqua, continuando a scrutarmi. Quando si avvicinò sentii l’odore aspro e forte che emanava, e subito pensai che probabilmente anche io puzzavo, nei miei vestiti che da otto mesi non cambiavo. L’uomo mi chiese perché avevo combattuto per i fascisti, dato che sembravo tutt’altro che fascista. Io gli dissi che non avevo avuto altra scelta. Lui sospirò e aggiunse che avrei avuto modo di alleviare le pene del mio animo, se fossi stato ancora disposto a combattere. Lo ammonii subito: non avrei mai più impugnato un’arma col fine di uccidere innocenti. Se loro erano fascisti, se volevano cercare di riportare al potere quell’ideologia che avevo imparato a odiare e ripugnare con tutto me stesso, avrei preferito morire all’istante piuttosto che vivere da infame, come avevo vissuto negli ultimi anni. Perorando, cioè, con violenza una causa che non era la mia, combattendo per una bandiera intrisa di sangue innocente.
Lui sbottò in una risata, dapprima lieve e via via sempre più sguaiata. Pensai che era arrivata la mia ora, finalmente. Qualcuno mi avrebbe dato la morte che non avevo avuto il coraggio di trovare da solo.
Ciò che l’uomo mi disse prima di slegarmi mi lasciò allibito.
“Ci chiamano traditori, disertori, nemici della patria. Perché non crediamo affatto in un ideale ingiusto, violento, sfigurato dagli interessi e da odi irrazionali. Noi siamo sognatori, crediamo in un unico, perfetto, magico ideale: la libertà. Noi combattiamo per questo sommo ideale, e combatteremo finché la morte non ci strapperà via da questa terra. Combattiamo per avere la libertà di dichiarare le nostre idee, di fare ciò che preferiamo, di non avere il terrore che qualche nemico insanguini le nostre terre. La libertà di scegliere, di vivere la nostra vita in quanto unicamente nostra, priva della guida di qualcuno che molto in alto comanda il nostro destino. Noi non vogliamo più combattere guerre fratricide, non vogliamo più veder morire i nostri cari. Non vogliamo più dover guardare la maschera d’orrore che distrugge il sorriso dei nostri figli. Non vogliamo più avere paura di pensare. Noi siamo partigiani! Noi libereremo l’Italia dalla feccia che distrugge la nostra vita! Realizzeremo il nostro sogno: il sogno di un’Italia unita, feconda e forte! Ci nascondiamo nei boschi, di giorno, per sfuggire ai tedeschi. La notte, come predatori, sbuchiamo fuori e massacriamo gli aguzzini che insanguinano le nostre terre. Io credo alla tua storia, credo al fardello che ti opprime e ti tormenta: la colpa che percepisci sulle tue spalle è manifesta nel tuo sguardo. Ti lascerò due scelte: continuare il tuo viaggio da solo, rischiando di imbatterti nel nemico e venire ucciso. Oppure, unirti a noi. Ma bada bene, non abbiamo pietà. Nessuna compassione per gli oppressori. Devono morire tutti!”

Mi lasciò tre ore di tempo per pensare. Il pensiero di uccidere ancora mi angosciava. Ma lottare per liberare il mio paese era impresa ardua quanto gloriosa. Pensavo al viso dei miei cari, a quanta felicità avrei potuto vedere nei loro occhi se quei partigiani fossero riusciti a vincere la loro battaglia. La mia battaglia, la battaglia di tutta l’Italia.
Dopo un’ora gli comunicai che avrei combattuto al loro fianco, fino alla morte.

Non passava minuto senza che i volti degli oppressori, da me uccisi nell’arco dei mesi che seguirono, non si manifestassero durante il sonno. Nonostante la consapevolezza di essere ogni giorno un assassino, un nuovo assassino, avvertivo la correttezza di tutte quelle morti. Quegli uomini avevano ucciso milioni di ebrei, fomentando la follia di Hitler. Avevano violentato le nostre donne, bruciato e distrutto le nostre case, deturpato tutto ciò su cui i loro occhi colpevoli avevano posato lo sguardo. Uccidemmo centinaia di tedeschi durante le imboscate. Liberammo le popolazioni oppresse, molte delle quali si univano a noi nella lotta. Finché Salvatore, questo era il nome dell’uomo che mi aveva offerto una seconda vita, non ci diede la buona notizia.
Gli Alleati erano sbarcati a Salerno, sterminato i tedeschi e stavano marciando verso Napoli e Roma. Era il 9 settembre 1943 quando il porto di Salerno, la mia bellissima città, si riempì di navi inglesi e americane. Solo dopo molti mesi riuscii a tornare nella mia città, ormai e finalmente libera. Vidi mia madre Attilia, sopravvissuta, e gioii con lei, che mi credeva morto. Ripartii dopo qualche giorno, per tornare a combattere l’unica guerra che ho sentito veramente mia. Era la nostra battaglia per la liberazione di tutta l’Italia. E vincemmo, a suon di spari e sangue. Vincemmo e gioimmo, finalmente liberi nel nostro libero paese.
Era il 25 Aprile 1945.
Io sono Antonio. Combattente e partigiano italiano.
Ma, soprattutto, uomo libero.

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