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Recensione : Aimee Mann – Mental Illness

Nono disco per Aimée Mann, che si conferma superba cantautrice per certi versi controcorrente, almeno per la piega data ai testi che compongono l'album "Mental Illness", ma nella forma troneggia un folk rock dei gloriosi tempi andati che ce la fa accostare a Joni Mitchell. I toni sommessi di questo lavoro, consolatori, sono abilmente ricamati dalla produzione certosina di Paul Bryan.

Aimee Mann – Mental Illness

Dato alle stampe il 31 marzo, l’album di Aimée Mann, dal titolo “Mental Illness”, si appresta a fare il suo corso nell’avventore appassionato, sperando di trovare nuovi estimatori, ricordandogli che la lunga carriera della Mann è garanzia per la qualità delle canzoni qui rinvenuta. La dimensione generale dell’album paga debito al genere folk, acustico, teso a quel genere detto “americana”; l’atmosfera creata è confidenziale, pacata, siamo pervasi dalla bella voce della Mann, che in quasi quarant’anni di attività riesce a dare mirabilmente ancora molto di sé, artisticamente. La dicotomia testo musica è imprescindibile, occorre calarsi nelle parole intrecciate alla musica per decifrare il valore di queste ebanisterie intagliate a mano: quindi armiamoci di soffici e possenti ali e scendiamo più giù a rimirarle meglio e planeremo in un galoppo alato entro il cratere ove gorgoglia la mente.

La deliziosa canzone di apertura “Goose Snow Cone” è nata come, ma ce ne da notizia la stessa Aimée: in un momento di nostalgia da casa, mentre era in tour in Irlanda e la giornata si presentava fredda e nevosa, fu attratta dalla visione, tramite Instagram, di una micia di sua conoscenza chiamata Goose che le faceva ricordare una lamentosa palletta di neve; da qui il movente per scrivere una canzone sulla solitudine, nata spontaneamente. Alla genuinità del testo si unisce quella del video; Goose doveva assolutamente far parte delle riprese ed anche la sua proprietaria, Puloma, una fotogenica amica di Aimée il cui marito di professione confeziona video: Tah-dah, il gioco era fatto!

Certo, in questa storia improvvisata non sono mancati i problemi, specie quelli relativi a far recitare Goose, ma grazie al buon veterinario della Mann, anche lui nel video, le cose sono andate meglio, rendendo così la familiare aria del lavoro intimamente magica… anche e soprattutto grazie alla melodia della song, arrangiata sottilmente da Bryan con accorgimenti da focolare domestico natalizio, e ci sentiamo circondati dal sentimentalismo, fatto però asciutto dal timbro affabulante di Aimée!

In “Stuck in the past” il taglio ironico/malinconico è fotografia del momento difficile (“I don’t know what that arrangement was/ I could never tell/ Like you could/ I don’t [?]”) in cui rinunciamo a fare o dire qualcosa quando dovremmo; perso il treno, i treni, è un po’ come morire dentro. Rimane il rimpianto. “Stuck in the past/ Like drawing rings around Saturn”. La Mann conferisce un andamento quasi valzerino alla song, filastroccato, ciò che inchioda è il registro della voce che mostra decisione e comprensione per le cose sfumate, scoprendo una canzone incisiva, dal piglio disincantato, memorabile.

“You Never Loved Me”. Attraversiamo una song dal linguaggio tumbleweed, dove nella lontananza si prende coscienza di una storia d’amore finita, raggiungendo le desertiche folate della solitudine. Punto di non ritorno.
Magra consolazione di visioni poeticizzate. Consolazione desolante.

“Rollercoasters”. Alti e bassi dipingono la devianza della malattia da “addicted”, implorando per un Dio che non c’è, diluiti nella routine egoistica; ma il peggio si manifesta giudicando, Aimée lo sa bene e ne prende atto con rasserenante sguardo sulla tragedia umana. Dolcissima intonata ninnananna, riesumando atmosfere seventies direttamente dai sogni infranti di un’epoca aurea sconfitta dalle droghe pesanti.

“Lies of Summer”. Canzone sulla sociopatia: cha fare quando si è consapevoli di avere a che fare con un tale soggetto? “Wait a second, gotta write this down/ ‘Cause once they put you in a paper gown/Leave no trace, like you’ve never been there… We’ll all rewind and wait to hear” the lies of summer. Soft country rock! Il tratto autobiografico è raccontato da Aimée, che conobbe questa persona, amica di un amico, e la sorpresa derivante dal suo comportamento incoerente, dalla confusione generata dalle parole sconclusionate proferite ad ognuno che quessto tipo incontrava, riviste poi totalmente diverse alla luce della realtà dei fatti… You start to think, “Oh, what about…” (Aimée dixit).

“Patient Zero”. Musicalmente si fa spazio il bel canto di Aimée, la chitarra batte il ritmo lasciando che il contesto si arricchisca di archi pizzicati, di cori, di pianoforte e batteria, scorrendo sotto una grigia aria magica enfatizzata o meno a seconda del testo. La song prende spunto da un testo teatrale del 1980, “Dresser” (Servo di scena), di Ronald Harwood, che parla proprio di un dresser, cioè un aiutante di scena che serve gli attori, qui al servizio di un vecchio attore che cerca di mantenere alto il suo status; contrapposizioni che mettono in luce le insidie per chi vive nel mondo dello spettacolo: presupposto per una metafora sulla vita. Molto bello il video!

“Good for me”. Sembra una canzone autoreferenziale, probabilmente la cantante si riferisce a se stessa, cantante riemersa dopo cinque anni per cavalcare ancora l’onda della musica incarnando un ruolo controcorrente e che invece, formalmente, non si allontana da quello classico (il folk rock) che le da più piacere. Ballad cadenzata dal piano e dai cori, si dissolve tra cascatelle d’archi… alla fine tutto fluisce.

“Knock It Off”, ancora più fedele ad una tradizione westcoastiana tra fine ’60 e anni ’70, qui il registro canoro intenso appare più vicino a certe espressività di Joni Mitchell… un’aria piacevole si districa sofferente, vissuta, caratterizzando il rimprovero per le scelte sbagliate che non sono mai costruttive: chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Stop the wrong way!

“Philly Sinks” Altalenante ballata per chitarra e voce, di una dolcezza amara, complice il contenuto; infatti si parla di Philly, un uomo che trova la libertà nel bere e lì rimane ancorato sino a perdersi, incapace di andare oltre. Ritratto sognante…

“Simple Fix”. Stallo di in una coppia in crisi… nessuno si decide a prendere una decisione o effettuare una modifica ai loro errori, i quali rimarranno circoscritti nel loro pozzo dal quale non ne usciranno più. Storie ordinarie di impotenza, raccontate da quella voce che ti si mette sotto pelle e supportata da un fremito del piano; l’orchestrazione è quasi dannata, in modo minimale resta prigioniera del circolo amaro e triste. Una lirica carica di rinuncia per troppo amore o incapacità culturale di accettare un cambiamento? Ah, già, che stupido, it’s a just a mental illness!!!
Il violino sottolinea la linea come un limite armonico tra i due. “What is the simple fix?” …it’s just “Get out.” Get out altogether. That’s the simple fix. Just walk away. (Aimée dixit)

“Poor Judge” è sorretta dal piano e dagli archi; il testo è una canzone sull’inganno reciproco, il cuore trattiene dei rancori che spingono a fare la cosa sbagliata, ancora una volta, per troppo amare.

La verve di Aimée Mann gioca su un territorio contrario ai bei sentimenti, qui sono inscenate storie di gente ordinaria come ce ne sono a bizzeffe tra i mortali, cantando storie di solitudine, di errori, di rimpianti, di rimproveri, di fughe dalla realtà, di sociopatie: tale campionario viene racchiuso schiettamente sotto l’appellativo del titolo “Malattie Mentali”, detto proprio così, senza nascondersi troppo, il che la fa ridere per cotanta schiettezza; ad ogni modo la sua poetica talvolta è criptica e di difficile deciframento.

Offre comunque uno sguardo disincantato sulle sensibilità di ognuno espressa a livello testuale di cui lei è autrice; invece per quanto riguarda la musica il discorso è diffusamente incentrato sulla canzone, che possiede una forza nella dolcezza e nel consolatorio, come un lieve balsamo che lenisce e prende atto, senza volgere alla disperazione o alla rabbia, neppure fa la voce della santona o dell’illuminata. La voce padroneggia e caratterizza il lavoro, Aimée Mann possiede un timbro vocale che si presta magnificamente alle armonie che ha costruito per le sue storie, è incisiva nel suo cantare, calda, a volte distaccata, ma la partecipazione è assicurata.

Partner ideale è l’accompagnamento: chitarra, pianoforte, archi, basso e batteria, e fiore all’occhiello eccelle la produzione intrigante di Bryan, il bassista. I suoni da ballata folk, da canzone americana che si rifà al soft rock e alle armonie di un passato ’60-’70, fanno rievocare aloni di Joni Mitchell, e forse di Neil Young di “Harvest” e certi arrangiamenti, specificatamente l’uso degli archi, già trovati in “Forever Changes” dei Love di Arthur Lee. L’album quindi riesce a risplendere di mood depressivo, cantautorale, doloroso figlio degli opposti testo/musica.

Ed è su queste dicotomie che si innalza tutta l’opera, non appariscente, ma lo diventa grazie all’ottimo cantato della Mann.

TRACKLIST
1. “Goose Snow Cone”
2. “Stuck In The Past”
3. “You Never Loved Me”
4. “Rollercoasters”
5. “Lies Of Summer”
6. “Patient Zero”
7. “Good For Me”
8. “Knock It Off”
9. “Philly Sinks”
10. “Simple Fix”
11. “Poor Judge”

LINE-UP
Aimée Mann – Vocals, guitar
Jonathan Coulton – acoustic guitar, backing vocals
Jay Bellerose – drums
Jamie Edwards – piano
Ted Leo – background vocals
John Roderick – co-writer
Paul Bryan – string arrangements, producers

VOTO
8,80

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